Non sentimentale, ma siberiana, sempre educazione è, e comunque c'è del tenero. Gabriele Salvatores porta sullo schermo il controverso – autobiografia o finzione spacciata per? – romanzo di Nicolai Lilin, lo fa adattare da Rulli & Petraglia e gira in Lituania con attori stranieri per aprire il nostro cinema a quel che, purtroppo, non s'aspetta più: internazionalizzazione, questa sconosciuta. Il merito principale sta qui: John Malkovich per nonno delle tenebre, Arnas Fedaravičius e Vilius Tumalavičius per i due fratelli coltelli protagonisti, uno bruno e l'altro biondo, uno onesto e l'altro criminale. Sono gli Onesti Criminali siberiani, l'indomita progenie dei guerrieri Urca – l'esclamazione vien da sé… - a dare l'humus, in cui il passaggio di consegne è a mano armata, ma con un'etica invalicabile: la droga no, il furto e la rapina sì, ma contro il Sistema.
Kolima il bruno e Gagarin il biondo crescono e si distanziano, ma nemmeno il destino li può separare.
Supportato dall'ariosa fotografia di Italo Petriccione, Salvatores segue e incalza, cade negli effetti speciali (il folle volo dei colombi…) e indugia nell'andirivieni temporale spezzettando il pathos, ma ha un merito incontrovertibile: andare oltre il cinemino nostrano, un fine che giustifica i mezzi produttivi (Cattleya) e qualche affabulazione ed edulcorazione di troppo.
Echi estetici da Romanzo criminale e provincialismo nel fuoricampo, nel sud della Russia, come vuole Lilin, si respira qualcosa di nuovo: tra David Bowie e architettura sovietica, natura da lupi e storia in bilico sul Muro, prendiamo a braccetto due giovani che diventano adulti, e forse un cinema, il nostro, che prova a fare lo stesso.
Perfettibile, s'intende, precariamente etnografico, si capisce, ma Educazione siberiana ha nel titolo al sua prassi: inventarsi stranieri per crescere meglio, anzi, per crescere e basta. Se immedesimazione spettatoriale e ricostruzione antropica difettano, scagli una pietra chi c'ha almeno provato: non pioveranno troppe pietre, ma spunterà qualche maleducato