Il maestro è tornato. Sam Raimi riabbraccia il suo primo e miglior amore, l'horror classico in grande stile. Di quello consapevolmente splatter e visceralmente intelligente, ben posizionato, ovvero capace di traslare in espressione politica persino un esercizio di dizione: "There is no friction with a proper diction".
Se lo ripete come un mantra la protagonista, mentre guida verso l'ufficio dove spera che anche una miglior pronuncia le assicuri l'avanzamento di carriera in banca a cui ambisce con garbo rapace. Ma a quale costo? Il più alto, anzi, il più infimo: offrire l'anima al diavolo. In un certo senso. E questo accade quando Christine, biondina dai modi gentili (Alison Lohman), rifiuta di proposito di prorogare il prestito per il mutuo a una certa signora Ganush (Lorna Laver), anziana e zingara di origini ungheresi. La scelta, motivata dal desiderio di apparire una dura davanti al capo, le costerà una maledizione feroce. Fidanzata con un giovane psicologo (Justin Long) che non crede ai primi sussulti persecutori paranormali, Christine dovrà ricorrere a veggenti e medium (dietro lauti pagamenti) per tentare di trattenersi l'anima, che il mostruoso demone caprino Lamia le vuole carpire con tormenti e spaventi inenarrabili.
In Drag Me To Hell non manca proprio niente dei sapori e rumori della grande tradizione horror, con una dose di umorismo talmente sagace da riuscire a spaventare e divertire esattamente nel medesimo istante. Il gusto orrorifero, non esente da citazioni proprie ed esterne, inoltre, è rimodellato da Raimi sui temi odierni, tanto da poter definire Drag Me To Hell il primo grande horror della crisi bancaria. Con il valore fondamentale della marca critica sul senso di responsabilità, che non deve lasciare impuniti i colpevoli, anche se rei confessi. Nulla, infatti, succede per caso.