Ci sono film che per volontà di chi li ha concepiti sfuggono a qualsiasi tentativo di classificazione, impedendo allo spettatore di circoscriverlo all’interno del recinto di un dato genere. Diamantino di Abrantes e Schmidt è uno di questi. Il suo DNA drammaturgico, narrativo e formale, ha nell’ibridazione il carburante che ne alimenta il motore.

Con un mix di dramma, commedia surreale e fantascienza, la pellicola ci catapulta nel “mondo” di un calciatore, icona assoluta del rettangolo di gioco e simbolo dell’intero Portogallo, capace da solo di sfondare le difese più rocciose.

Nel momento cruciale della carriera però il suo genio si dissolve e cerca di dare un senso alla propria vita. Comincia in quel momento una folle odissea nella quale si confronteranno neo-fascismo, crisi migratoria, deliranti traffici genetici e ricerca sfrenata della perfezione.

Facile riconoscere nel ritratto disegnato sullo schermo l’identikit di uno pseudo Cristiano Ronaldo (interpretato da Carloto Cotta), dal quale ovviamente lo script prende in prestito analogie biografiche per poi lasciarsi andare a derive nonsense e ultra kitsch al limite del trip psicotropo.

Le menti degli autori, qui all’esordio sulla lunga distanza dopo una manciata di corti firmati a quattro mani, concepiscono e poi danno forma a un’opera schizofrenica e fuori controllo, la cui natura multiforme e multicolore à la Alex Cox, fatta di barboncini e nuvolette rosa, a un primo impatto affascina e stordisce i sensi del fruitore, ma strada facendo ne mette a dura prova la resistenza a causa del rapido raggiungimento del livello di saturazione.

Croce e delizie di un film che cerca in tutti i modi, pagandone lo scotto, di evadere dagli schemi e di stordire la retina con soluzioni visive d’impatto ma raramente originali. Il risultato è un pastiche camaleontico che chiama in causa argomentazioni dal peso specifico non indifferente che non riesce suo e nostro malgrado a supportare e a sviluppare a dovere.