Trovare tracce, pagliuzze e precipitati di Scorsese, Allen, sopra tutto Ferrara, Spike Lee, nonché Altman, Cassavetes, Jonze in un film non è cosa di poco conto. Ancor più se questo film ha identità propria, è come si dice assai personale, e senza risparmio: è perfino fesso, addirittura fottuto. E’, tra le altre cose,

una riflessione sulla kierkegaardiana disperazione della possibilità, e qui non può non riecheggiare in lungo, in largo e nel profondo Abel Ferrara, da Bad Lieutenant a Snake Eyes e King of New York.

 

La pena, diciamolo subito, è che questo film sia stato snobbato in toto agli Oscar (film, regia, fotografia, il protagonista Sandler e ancora, dove sono?), e che lo si possa vedere solo in streaming, su Netflix, per altro con un titolo sbagliato: Diamanti grezzi, al posto di Uncut Gems, ovvero “Pietre grezze”, nel cui novero rientra l’opale che fa da motore alla storia. Ma che si credono, questi portatori sani di algoritmi, che con diamanti nel titolo si acchiappi di più? Purtroppo, non è solo verosimile, ma probabilmente vero, a riprova del paese che siamo – e, dagli originals in giù, della strategia gravemente manchevole se non inesistente del colosso di Los Gatos per l’Italia, che si arrende allo status quo e lo alimenta creativamente, produttivamente e distributivamente.

Comunque,

Uncut Gems è un grande film, diretto dai fratelli Josh (1984) e Benny (1986) Safdie, ebrei newyorkesi al terzo lungometraggio di finzione dopo Heaven Knows What (2014) e Good Time (2017).

 

Sintomaticamente, e eideticamente, si apre collegando ispezione e sangue, miniera e colon, l’opale nero delle meraviglie rinvenuto in Africa e le viscere del gioielliere ebreo newyorkese Howard Ratner, interpretato superbamente da Adam Sandler: la pulsione scopica (viaggio nei recessi minerali e colonscopia) è palese, meno quella disperazione delle possibilità cui si vota il gambler – vi ricordate il cattivo tenente? – Howard. Eppure, Kierkegaard presiede al montaggio, sia miniera o colon la carrellata in avanti dei Safdie suggerirebbe che “alla fine è come se tutto fosse possibile, ma è proprio questo il momento in cui l’abisso ha ingoiato l’io”.

Insomma, nell’inizio c’è già la fine, meglio, l’inizio è la fine. In mezzo, lui, Ratner, denti avanti e occhi indietro, non un bel tipo, ma affascinante, ingombrante, rumoroso, affaccendato, vieppiù incasinato: trophy wife però senziente, la moglie Dinah (Idina Menzel) non lo sopporta più, i due figli esistono, l’amante Julia (Julia Fox) pure, e lo tradisce, lavora poco ma, forse, lo ama sul serio. L’opale deve dargli un po’ di respiro, ché i creditori – Arno, un grande Eric Bogosian, e scagnozzi - premono, e la pietra potrebbe essere d’angolo o, vai a sapere, d’inciampo: tutto in fretta, tutto ineluttabile, ma non nichilista, al più meccanicamente umano.

Tocca scommettere e, per uno scommettitore indefesso quale Howard, contro sé stessi, ovvero la propria squadra: i Celtics di KG (Kevin Garnett) al posto degli amati Knicks, perché il cestista s’è affezionato a quella pietra e quella pietra porterà entrambi alla vittoria.

 

Spiace, di vederlo solo in streaming qui, a differenza dell’America dove A24 ci ha frantumato un tot di record e rastrellato 49 milioni di dollari al botteghino, perché la via crucis di Howard gode appieno delle luci di Darius Khondji e sul grande schermo sarebbe tutta un’altra storia, letteralmente: la fotografia vira la prassi in tragedia, fa presentire che quel che vediamo non è tutto, che verrà altro, e inaudito. Non sono solo le luci della città, ma le luminarie di una festa dannata, i fuochi fatui dei conti che non tornano: illuminano il destino, incardinano il no future.

Dura più di due ore, ma non ti molla, Howard è Dante e Virgilio insieme, e non si sa se sarà Paradiso o Inferno, ma si sa irrefutabilmente che questo è cinema, grande cinema, capace di mettere insieme Casino e Fa’ la cosa giusta, l’ebraicità di Allen e la fame di Ferrara senza farsi derivativo né posticcio: Good Time cincischiava e si baloccava troppo, questo è un progetto di lunga gestazione e non è stato tempo perso, i soldi in più a disposizione non rispondono per tutto, non spiegano da soli questa evoluzione positiva, questa bella “sorpresa”.

I Safdie hanno qualcosa da dire e più di qualcosa da mostrare: non sono più pietre grezze, già brillano.

 

E sanno che farci ascoltare, dallo score di Oneohtrix Point Never all’esibizione diegetica di The Weeknd e, sui titoli di coda, L'Amour Toujours dell’ineffabile Gigi D’Agostino. Ecco, di Howard Ratner ci si innamora, rimane impresso, lui e il film.

PS:

Produttore esecutivo è Martin Scorsese e, volendo togliere a The Irishman, è la cosa migliore che abbia fatto quest’anno.