Nonostante gli indiscutibili traguardi messi a segno dall’emancipazione, il cinema dominante resta maschio, bianco, adulto e di estrazione borghese. Un’affermazione solo apparentemente contraddetta da un mercato saturo di prodotti per teenager, in verità pilotato da vecchi e scaltri produttori.

Per trovare una differenza, nel senso più apocalittico del termine, bisogna guardare agli indipendenti, specie se di sponda francese. Sarà un caso, ma nel giro di un paio di mesi sono arrivati da Oltralpe due coming of age di straordinaria energia, sensibilità e vividezza: a maggio The Fighters, adesso questo Diamante nero, che a dispetto del titolo è un’autentica perla. Lo ha diretto la sceneggiatrice e regista Celine Sciamma, la stessa che si era fatta apprezzare per Naissance des pieuvres e Tomboy, di cui questa terza prova sembra giusto il medio proporzionale.

C’è il tumulto delle personalità in divenire tipico degli adolescenti, contenuto tra una linea gotica che separa e un confine incerto che dilaga e permette ogni scavalcamento. C’è la guerra, fisica e allegorica, contro i padri e le madri e i fratelli maggiori; ci sono i corpi e il lavoro sui corpi, campi di forze tra spinte metamorfiche concorrenti; c’è una labile e quasi impercettibile definizione di gender. Col fatto poi che il film è tutto ambientato in una banlieue “nera” di Parigi, in un’appendice africana, patriarcale e tribale dell’Occidente, il discorso sul sesso acquista una spiccata valenza politica. Femminista. Mai sottolineata, semmai affidata all’evidenza delle immagini, sempre pulite, rigorose, concettualmente geometriche.

Apparecchiate per quattro piccole donne che sono anche quattro grandi attrici (bellissime quando cantano Rihanna), a partire dallo straordinario Diamante protagonista, Karidja Touré. Occhioni dolci non ingannino: la sua Vic è una tosta, è un’altra fighter, è puro voler essere. Dove potere e volere sono verbi declinati unicamente al maschile, non c’è posto per lei. Solo un esilio che lascia ben sperare.