I morti hanno cessato di esistere, diceva Baudrillard. Esiliati da una cultura ossessionata dal mito dei corpi giovani. La morte non è mai un bello spettacolo, quando non si fa spettacolo. A riguardo il cinema - morte al lavoro - continua a fornirci spunti, canovacci, esempi. Succede anche nel bel film di Yojiro Takita, Departures, imperniato attorno a un cerimoniere di riti funebri e vincitore, miglior straniero, dell'Oscar 2008 (quello che, a detta di molti italiani, fu scippato a Gomorra).
Vi si affronta la tanatoprassi. Senza omissis, però con pudore. Sfiorando il grottesco, toccando il sacro. In equilibrio tra ironia e partecipazione. Un andante con brio (per fluidità, montaggio, architettura narrativa) pervaso da spirito di trascendenza orientale. Quindi eleganza formale, grazia nei gesti, corrispondenze tra musiche e rituali (il protagonista è anche violoncellista). Con qualche sottotesto e minuto di troppo (il legame col padre). Vaga necrofilia e autentica pietà (evocata da una dolente esecuzione dell'Ave Maria di Gounod). Una riflessione non banale sull'osmosi di vivere e morire. Sulla soglia che li unisce e li separa, rendendo pari dignità. Sul mistero che consente ai vivi di guarire nella cura dei morti.