You're The First, The Last, My Everything canta Barry White in una delle tante hits dei '70 che compongono la colonna sonora di Dark Shadows. E' uno dei più felici raccordi visivo-sonori del film ed è significativo del modo di procedere di Tim Burton. Innanzitutto della sua capacità di sintesi: è una canzone capace da sola di evocare un'epoca, i suoi grumi ideologici, i rigurgiti dell'ingenuo romanticismo. Ed è una chiave di lettura poetica. Come sempre, a Burton non interessa l'accuratezza filologica: la storia è già immaginario, ri-scriverla significa trovare un alchimia credibile tra tracce sonore, acconciature, mode e derivati dell'industria culturale. Lo stereotipo come ingranaggio della verità.
Per Burton cinema e mondo coincidono: sono effetti cangianti di una ricomposizione dinamica, in cui di volta in volta cliché, pezzi di celluloide, frammenti d'arte del passato (come acclama impettito il protagonista, Barnabas Collins, parlando della dimora di famiglia come di "una meravigliosa fusione di arte europea e spirito imprenditoriale americano") vengono tagliati e ricuciti da questo dottor Frankenstein con la macchina da presa (meglio: Frankenweenie).
Pop e avanguardia, carta da parati floreale e quadri in stile Tamara de Lempicka, parrucconi e freak. Tutto si ricombina magicamente in Dark Shadows che è come un bignami dell'universo burtoniano.
Nel celebre telefilm della ABC, il regista americano ha trovato un soggetto d'elezione, la possibilità di dare vita a una soap-opera rock, che fosse omaggio ilare e nostalgico agli anni della sua adolescenza e opportunità di condensare in un unico testo intuizioni, ossessioni personali e idee di oltre 25 anni di carriera. Nelle mani aveva: il calco di un mondo parallelo (non c'è differenza tra un borgo medievale, la Liverpool del Settecento e un piccolo villaggio americano dell'era-Vietnam, essendo tutti ambienti fortemente modellizzati dallo sguardo del regista, ricostruiti in studio, squisitamente falsi), la storia di una famiglia tormentata (ancora una volta i figli vengono fatti a brandelli dai padri, i traumi non si contano, l'autorità sbeffeggiata), l'assurdo connubio di vivi e morti, amanti e streghe, innocenti e vampiri. E poi tutta una disponibilità di musica, colori, forme caleidoscopiche, propulsori atomici di energia positiva che sarebbe stato curioso effondere sui toni smorti, gli scenari cupi e gli esangui eroi del suo cinema. Come in Beetlejuice, lo score del film (quello originale è di Danny Elfamn: impagabile) viene utilizzato come un vestito d'arlecchino indosso al corpo di uno zombie. Ennesimo gioco di contrasti dagli effetti comici stranianti.
In Dark Shadows Burton porta all'estremo limite umori e bizzarrie, esasperando il grottesco fino al punto in cui "il grottesco si crogiola nel grottesco" (David Foster Wallace). L'emozione proromperà nel finale, quando ci verrà rivelato il vero cuore pulsante del film, ovvero non l'algida love story tra il vampiro Barnabas e la mortale Vicky (Bella Heathcote), come avevamo creduto, ma la folle e infuocata ossessione della strega Angie (Eva Green) per il non-morto.Alcune soluzioni visive lasciano senza fiato, la confezione è al solito sontuosa, gli effetti speciali perfettamente integrati nel realismo simulato. Il cast assembla vecchie e nuove maschere: Johnny Depp è un Nosferatu solo più imbranato, Helena Bonham Carter e Michelle Pfeiffer poco più che comparse, amuleti portafortuna del suo cinema. Chloe Moretz si conferma il futuro, Bella Heathcote viene persa di vista nonostante sia un personaggio centrale. Jonny Lee Miller e Jackie Earle Haley fanno i giusti comprimari. Di nuovo semmai c'è l'insopprimibile carica erotica - questa sì aliena a Burton - che porta in dote Eva Green, forme a dirigibile e labbra stracolme di vitamina C.
Per il resto: qualche parola di troppo, tempi morti in eccesso, ma anche l'indiscutile maestria di far convergere pianeti paralleli con sinuosi movimenti macchina, morbidi tagli di montaggio, illusionismi scenici di rara grazia. Burton si conferma unico nel saper trasformare ogni botola, ogni passaggio segreto, in soglia auratica, portale di un altro paese delle meraviglie. Che è però anche l'ennesimo. Il vero insormontabile limite di Dark Shadows è il suo arrivare per ultimo, ennesima magia appunto, di una filmografia che dopo aver aperto tutte le segrete scopre il vicolo cieco, il punto di non ritorno.In Dark Shadows c'è tutto di Burton eccetto Burton, ovvero quel sognatore ancora capace di spostare in avanti i confini della visione. Ci sono tante sorprese ma nessuna autentica sorpresa. Non diremo déjà vu perché faremmo torto a un'opera comunque eccelsa per qualità e ricchezza di sguardo. Ma le tracce disseminate nel film più che condurci all'autore sembrano indirizzarci verso la sua mitologia. Con l'ultima botola, quella che lo porterà oltre il suo cinema, ancora tutta da scoperchiare.