Non è il cavaliere di Nolan a essere oscuro nel film di Tim Sutton. E’ la notte, astronomica ed esistenziale. Al terzo film, uno dei talenti del cinema indipendente per davvero conferma la statura del suo sguardo (da recuperare il suo esordio, Pavilion) e il valore del suo cinema con Dark Night, ironico gioco di parole con Dark Knight.

Infatti lo sfondo - lontano, conclusivo - della vicenda è la proiezione del film su Batman che fece da teatro al massacro di Aurora: Sutton non racconta né cerca la cronaca ma immagina vite, relazioni, insoddisfazioni e quotidianità dei ragazzi coinvolti in vario modo nella strage. Anche qui come nei precedenti film, Sutton (pure sceneggiatore) si concentra su un gruppo di ragazzi e disegna il contesto attraverso di loro, continuando a seguire e rielaborare le lezioni del Gus Van Sant più radicale (Elephant nella fattispecie).

La vera sfida del film, dal punto di vista concettuale, è quello di tracciare un quadro generazionale e riempirlo di dettagli, osservazioni, elementi di attualità senza cadere nella sociologia, senza voler trarre conclusioni dalle questioni ambientali e culturali che il quadro pone. Riesce nell’impresa soprattutto grazie allo stile: ritmo rarefatto e inquadrature all’apparenza piane che si muovono in profondità, che seguono i protagonisti, non li inquadrano in modo deterministico ma ne intercettano le variazioni di umore e li fanno percepire come esseri davvero umani e vicini allo spettatore.

 

Forse per Sutton il massacro è un pretesto, anche vista la mancanza di risposte, la reticenza acuta e fertile della narrazione; ma al netto di qualche dubbio sulla lieve furbizia dell’autore, Sutton trova sempre modi intelligenti e adeguati, originali e coerenti per gestire le sequenze e i suoi attori, più figure negli spazi che personaggi in una scena. Una sorta di astrattismo che attraverso la forma sa diventare concreto e umanista.

Presentato in Orizzonti alla Mostra di Venezia del 2016.