Che sia famoso il detto o almeno ciò che rappresenta nell'immaginario e nel linguaggio corrente, lo dimostra il fatto che uno dei periodici più conosciuti e letti al mondo si chiama proprio come il nuovo film di Mira Nair (Leone d'Oro nel 2001 con Monsoon Wedding): eccoci, dunque, nella Vanity Fair, la fiera delle vanità, quella appassionante corsa ove ogni mezzo è permesso (e sono preferiti, solitamente, gli illeciti) ed alla quale nessun controllo antidoping può chiedere immunità, dare regole e tanto meno sospendere dalla gara. E' una eccitazione irrefrenabile che nessuno lascia immuni, ieri come oggi, quando tutto è più generalizzato, facile, 'democratico'. Il traguardo? L'accettazione nel ventre grasso e potente della buona società, in quelle sfere ove, vanitas vanitatum, tutto si può, tutto si dispone e decide e tutto anche si perde, da un giorno all'altro, quasi che la vita fosse un gioco. William Makepeace Thackeray aveva visto giusto scrivendo, nel 1848, il suo romanzo, punteggiato di satira, ambientando soltanto qualche decennio prima l'arrampicata divertente e dolorosa, imprevedibile e coraggiosa di Becky nella Londra capitale dell'impero e della democrazia, Londra, alle prese, come altre città, col lusso e Napoleone, l'India e i militari, le guerre e le ghinee (ricordare Barry Lyndon, per favore). Ed ecco un film sontuoso e appassionante che la regista indiana, con la sua classe ed il suo delicato, personalissimo tocco femminile, conduce con piacevole senso del racconto, seguendo davvero con curiosità muliebre ciò che si nasconde dietro lo sguardo furbesco e sibillino della brava Reese Witherspoon nel ruolo della protagonista, dalla sua ascesa, alla sua caduta e rinascita. Alcuni dialoghi sono straordinari, la ricchezza di scene e costumi appariscente, la corona di attori e attrici (cinquantanove se ne contano sul press book), tra grandi e piccoli ruoli, di gran pregio. Potrebbe essere identificato come un lavoro convenzionale, ma nel grigio panorama del Concorso veneziano brilla, e fa piacere.