Verità, arte e intrattenimento. E' il cinema secondo Shuji, il filmaker protagonista di Cut. Ed è il credo di Amir Naderi, il suo regista. Cut - in Orizzonti e non in Concorso: non si capisce perché - è un vertiginoso meccanismo di sovrapposizioni e opposizioni: tra l'autore e il personaggio, il passato e il presente, l'ideale e il reale, il cinema e la vita. "Cut" è taglio, cesura. Momento di discontinuità. Ma è anche unione, "montaggio". E' in questo campo teorico che il maestro iraniano si muove. Ma senza cerebralismi, giocando a carte scoperte. Shuji è lui: un cineasta ai margini, che non accetta il declassamento del cinema a prodotto. Un puro, un combattente. La sua casa è un alveare d'immagini. Ritagli di giornali e poster a tema unico: i grandi del cinema. A Ozu e Kurosawa, Shuji rende omaggio e prega sulle loro lapidi perché il cinema trovi la forza di riemergere. La sue venerazione - e quella di Naderi - è totale (il rispetto passa anche dalla fotografia che, al cospetto dei maestri, vira sul bianco e nero).
Scende tra la gente (quelli che in un impeto di rabbia chiama "idioti"), col suo megafono, per denunciare lo stato di crisi in cui versa la settima arte. E all'industria che tutto insozza, risponde organizzando sul terrazzo di casa la visione di capolavori immortali: di Keaton, Welles, Ford, Bresson. Per 20, 30, 40 persone. Naderi - che gira tutto in digitale, ma con una qualità straordinaria - inquadra quello che sembra un piccolo ghetto di adepti sopravvissuti dall'alto, tra le luci dei grattaceli illuminati di Tokyo, afferrandone la fragile alterità. Una frontiera oltre i palazzoni del business.
Poi il taglio, anche nell'esistenza di Shuji: il fratello Shingo, che aveva preso in prestito del denaro dalla Yakuza per finanziare i suoi film, viene ucciso. Ora quel debito dovrà essere estinto da Shuji in persona, pena la morte. La cifra è enorme e il tempo poco: appena due settimane. Ma Shuji ha già in mente un piano.
Impossibile rendere conto in una recensione della quantità di sottotesti, personaggi e correnti emotive che attraversano il nuovo film di Naderi, operazione metalinguistica e personale insieme, disperata e romanticamente necrofila. La domanda è: davvero è così irrimediabile il destino della settima arte? Naderi ha il coraggio di essere pessimista fino in fondo, orchestrando una sorta di rito funebre popolato da fantasmi (i maestri del passato, il fratello di Shuji e quello sguardo in soggettiva di impossibile attribuzione, che improvvisamente si appropria del punto di vista), un noir nichilista, uno spettacolo di insopportabile masochismo. Shuji che usa il suo corpo come un punchball per cazzotti a pagamento è il regista che si punisce per i troppo compromessi con il denaro, il cinema violentato dall'industria, l'uomo che lava col proprio sangue la colpa di un fratello ucciso a causa sua. Naderi ha l'intuizione di usare il corpo per restituire al cinema una tangibilità, una concretezza di vita che non ha mai avuto prima d'ora. E usa le immagini dei capolavori del passato - che in dissolvenza incrociata si sovrappongono a quelle del film che stiamo vedendo - come spettri. Tutto questo per dirci che la settima arte è qualcosa di sacro: non a caso il rapporto che Shuji intrattiene con le immagini è, più che feticista, venerativo, religioso. Cut è forse l'unico film possibile sul cinema dopo il cinema, un esercizio vertiginoso di messa in abisso (esemplare il riferimento a Il cameraman di Buster Keaton), un suggestivo footage di immagini (delle proprie e di quelle altrui), una prodezza narrativa che combina diversi piani testuali e apre numerose parentesi interpretative. Un film teorico al massimo grado, mai banale dal punto di vista estetico, capace di colpire lo spettatore alla pancia. Il finale, quasi insostenibile per violenza, è assolutamente necessario. Se Naderi cercava verità, arte e intrattenimento, con Cut l'ha trovata. Il cinema può morire un'altra volta.