“Un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta”. Rocky Balboa è tornato. Stavolta nelle vesti di allenatore: per provare a trasformare il talento grezzo di Adonis Johnson in qualcosa di più. Ma, per il ragazzo, convincere il vecchio campione di Philadelphia a prendersi cura di lui non è così semplice: dirgli di essere il figlio biologico di Apollo Creed, antico rivale sul ring e grande amico nella vita, non basta. Servirà, invece, fargli capire che anche lui è nato per combattere.

Diretto da Ryan Coogler (già regista del pluripremiato Fruitvale Station), Creed non aggiunge nulla ad una delle saghe più celebri della storia del cinema, ma tenta di affiancarcisi con rispetto e devozione: tirando fuori dal cilindro una nuova figura (Adonis, interpretato da Michael B. Jordan) per riportare metaforicamente in vita il carismatico vecchio campione dei pesi massimi Apollo Creed (Carl Weathers), morto sotto i colpi di Ivan Drago (Dolph Lundgren) nel quarto capitolo della serie (1985), gli autori (lo script è firmato dal regista insieme a Aaron Covington) dimostrano di saper maneggiare con cura tutti gli aspetti filologici della questione.

Per riuscire al meglio, contrappongono all’impeto e alla fisicità di Jordan (già interprete di Fruitvale Station) la saggezza e l’imponenza di Sylvester Stallone (premiato con il Golden Globe e in profumo di Oscar): Rocky, in fondo, oltre che protagonista assoluto della saga ne è anche l’ultimo testimone rimasto. In tal senso, ritrovarsi al cospetto dell’erede di Apollo contribuisce a ridestare l’universo dei ricordi, nei quali Balboa è rimasto serenamente intrappolato, proprio come la moglie Adriana e il cognato Pauli custoditi in quelle lapidi di quel cimitero in collina.

Spuntato dal nulla, figlio di un rapporto extraconiugale di Creed (morto prima della sua nascita), dopo aver trascorso i primi anni di vita in riformatorio e poi cresciuto a Los Angeles nell’agio grazie alla vedova di Apollo (Phylicia Rashād, la celebre signora Robinson dell’omonimo telefilm USA), Adonis sa, sente, che il suo unico scopo nella vita è quello di diventare un campione di pugilato. La sua determinazione sarà la chiave con cui sconfiggere qualsiasi pregiudizio – positivo e negativo – legato al suo nome: la sua voglia di combattere, in più, aiuterà lo stesso Rocky ad affrontare un’altra, terribile battaglia che la vita gli ha riservato.

La formula vincente del film, allora, è proprio quella di saper miscelare operazione nostalgia (la corsa alle galline, la scalinata del Museum of Art...) e rilancio di un franchise che, mai come altri, ha saputo trasformare la “noble art” in un prodotto epicamente cinematografico.

“Un passo alla volta, un pugno alla volta, una ripresa alla volta”.