Un muggito ci seppellirà. No, il contrario: seppelliremo noi il muggito.

Eppure, l’epilogo scontato non toglie nulla all’empatia, ovvero la soggettività donata alla mucca protagonista di Cow, diretto da Andrea Arnold e presentato nella sezione Cannes

Premiere del festival francese 2021, dove la regista inglese ha guidato la giuria di Un Certain Regard.Habitué laureata della Croisette, giacché ha vinto il Premio della Giuria con Red Road (2006), Fish Tank (2009) e American Honey (2016), col suo primo documentario inquadra Luma, una mucca da latte di una fattoria inglese come tante altre. Ne segue la routine, dalla canalizzazione alla mungitura; i parti, due: una vitella pezzata e una nera; la monta da parte di un bel toro nero con montaggio delle attrazioni, e del pudore, dall’amplesso ai fuochi d’artificio, a mo’ di tradizionale caminetto; la fine, che sai verrà ma non ti aspetti.

Perché, ci chiediamo, documentare invero meticolosamente la vita animale, segnatamente vaccina, di un esemplare non illustre, di un bovino ordinario, di una semplice mucca, fatta titolo senza nessun altro attributo né riconoscimento? Qual è il surplus di senso, qual è la sfida cinematografica della pregiata cineasta Arnold, quale lo scopo, di più, il fine?

Che non sia solo esercizio di stile, prova di bravura è chiaro dopo poche inquadrature, che ci sia un reale interesse per la vacca Luma è sensibile, addirittura empatico, ed ecco il sospetto, di più, la prova a carico: può il cinema elevare al soglio narrativo, a potenza simbolica, dunque a soggetto cinematografico anche un soggetto non umano, anche un mammifero non senziente, insomma, una vacca? Può, in definitiva, il racconto creare la storia, la camera il soggetto a prescindere dalla natura, ovvero dalla specie?

Non si uccidono così anche i cavalli?, voleva Sydney Pollack nel 1969, non si nobilitano così anche le vacche?, vuole cinquant’anni più tardi la Arnold, seguitando ma con ben altra devozione,

ben altra esclusività la corrente fortuna vaccina, da First Cow (2019) di Kelly Reichardt all’iraniano Ballad of a White Cow (2020) di Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam. Piovono mucche, avrebbe chiosato nel 2003 Luca Vendruscolo, e chissà che vent’anni più tardi l’antispecismo in voga non abbia corroborato l’stanza bovina della Arnold.

No, non crediamo: non ci fa (la vaccara), ci è (regista), e la tranche de vie ha i crismi del grande cinema e le stimmate del grande affronto alla (s)oggettività umana. Non che sia Luma antropomorfa, non che balugini il favolistico Esopo o il metamorfico Ovidio, è solo il trattamento – anche letterale, ovvero cinematografico – che s’inventa e legittima la star quadrupede, l’attrice bovina.Insomma, vita, sesso, morte c’è tutto il cinema che, con buona pace di André Bazin, conosciamo, e pure la colonna sonora non aggiunta, ma diegetica, giacché per meglio dare latte le mucche

ascoltano la musica. Iscritta in una natura invero leopardiana, è una via lattea quella di Luma e le “altre ragazze”, parcellizzata da mille posti di blocco e percorsi obbligati, guidata dal nostro consumo (carne e latte), eppure Arnold sa trovare il carattere, la soggettiva bovina, il battito animale. Che è di Luma come nostro.

E qui casca l’asino, e qui s’innalza il Cinema.