Viene dalla marea di "videoclippari" che hanno invaso il mondo del cinema, Leste Chen, regista taiwanese del penultimo film presentato alla 19ª edizione della Settimana della Critica. E purtroppo questa preparazione di base la si riscontra in modo massiccio ed evidente fin dalla prima sequenza del seppur brevissimo (72 minuti) Kuang Fang. In primo luogo con una colonna sonora techno e drum and bass, talora diegetica, talora extradiegetica, che innerva e imbalsama l'intero film; in seconda istanza, come nelle migliori clip postmoderne (cioè quei video che arrivano dopo l'età pionieristica degli anni '80), il quadro è tagliato con quella finta e fastidiosa distrazione che porta i personaggi a ritrovarsi senza ragione con mezza gamba fuori dall'inquadratura. Ovvio, che qui nessuno vuole mettersi a fare processi alle intenzioni, perlopiù in una pellicola che vuole esibire teenager ribelli, suicidi, aborti, droga e vagabondaggi. Semmai il problema sta proprio nella assoluta mancanza di sovraesposizione di presunte scene "forti", di tanto strombazzati scandali. Risultato: una noia mortale. Perché mai in questo festival si era assistito ad una proiezione più soporifera di quella di Kuang Fang. Spiace dover quindi snobbare tutti i buoni propositi di Leste Chen ("la storia si esprime con l'energia di corpi e menti giovani, percepibile continuamente nell'intreccio"), perché questa ricerca di emersione dalla massa conformista per i giovani protagonisti del film, questa necessità di rifuggire l'incertezza della loro identità, diventa esercizio prettamente tecnico svuotato di ogni spinta al coinvolgimento e all'attenzione dello spettatore. Nonostante la presenza di attori fortemente glamour e di un volume sparato a miliardi di decibel.