Nonostante la morale di fondo venga riassunta in una frasetta da baci perugina come "quando non c'è scelta, si cambia", Clean di Olivier Assayas è film incredibilmente prepotente nello scavare, nell'esplorare la faticosa e necessaria cognizione del dolore degli esseri umani. Tra Parigi, Londra e il Canada, si ascolta decadente pop borderline, si incontrano morti di overdose, si insegue un difficile percorso per uscire dal tunnel della droga. Cinema di distanze e lontananze, di codici sconosciuti per comunicare la sofferenza interiore. Una madre che vuole chiudere con il passato di eroinomane, un bambino che impara cos'è la responsabilità delle proprie autonome scelte e un maturo signore che attende consapevole l'ennesima dolorosa svolta che il destino gli sta riservando. Assayas si rivela regista capace e sensibile, disegna traiettorie morbide e sinuose, dirige gli attori con sublime maestria non chiedendo mai un gesto o uno sguardo di troppo. Per l'oramai ex critico dei Cahiers è una questione di stile, di esperienza acquisita nel tempo, che si materilizza nella sublime poesia di una calibrata e ragionata banda sonora che rispetta rigorosamente una legge dicotomica di suono diegetico ed extradiegetico. Queste note musicali che distruggono una vita, ma che possono improvvisamente anche fare rinascere, sono marcate e presenti in una sorta di individuale orecchio/anima che li ascolta e li riserva per sè, prorompendo in un suono d'ambiente soltanto quando il film necessita la catarsi, solo quando la strada verso un avvenire migliore si compie. Inoltre, il piccolo James Dennis, Nick Nolte e Maggie Cheung fanno a gara per sottrarre le loro presenza in primo piano e farsi riampiangere subito dopo di non essere già più in scena. La Cheung poi, ex moglie di Assayas, è in un tale stato di grazia fino al punto di riuscire, in una sequenza clou del film, a far inumidire gli occhi di lacrime per un bel po' di secondi, senza mai sfociare in un pianto liberatorio. Clean è, infine, una parabola ottimista di un autore che in fondo ci fa fare i conti con la drammatica finitezza della vita.