L’altra faccia della Cina, quella che il regime non vuole mostrare, colpisce sempre per il suo grande carico di disperazione. Le persone vivono nella povertà più estrema, come animali che non sanno se anche oggi potranno mangiare. Da un lato il boom economico, i grattacieli e l’industria, dall’altro i drammi della provincia con il suo carico di miseria. La Cina nascosta è quella de La stella che non c’è di Gianni Amelio, dove anche in città troppi sventurati vivono in pochi metri con tutta la loro famiglia, case dove non esistono porte, solo teli che dividono un letto da un altro.

Nel documentario Haizi Bu Siwang, Danshi Haipa Mogui (Children are not afraid of death, children are afraid of ghosts), che d’ora in poi citeremo solo col titolo inglese, la drammatica realtà è quella di un villaggio di montagna, dove uomini e bestie condividono anche il giaciglio. I genitori abbandonano i figli perché non sanno come mantenerli e gli orfani resistono soli, tra quattro mura di paglia, in un luogo in cui l’unico dio sembra essere la criminalità organizzata.

 

Sulle alture del Guizhou, quattro fratelli e sorelle si sono suicidati con un pesticida. La più piccola aveva cinque anni, il più grande quattordici. Il documentarista Rong Guang Rong non riesce a darsi pace e si spinge in quel paesino sperduto in mezzo ai boschi, per scoprire la verità. Telecamera alla mano, prende la macchina e sfida le sue paure, perché da genitore non può accettare un gesto così estremo. La polizia cerca di mandarlo via, i delinquenti lo intimidiscono, ma lui ritorna sempre e improvvisamente capisce: per quei bambini il suicidio è stato l’unico modo per affermare la loro dignità di esseri umani. Quelle quattro creature erano schiacciate dal mondo e da una società che le imprigionava nei confini della foresta.

Il regista trova una giustificazione morale alla tragedia, ma non può far luce su come sono andate realmente le cose. Un poliziotto era già stato nella casa, una delle quattro vittime aveva le ferite di un coltello sulle braccia, e poi a chi era venuta l’idea del veleno? Per Rong non è importante saperlo. “I bambini non hanno paura della morte”, ma della realtà mostruosa che li circonda.

 

Children are not afraid of death, children are afraid of ghosts appartiene a un cinema sperimentale, che cerca nuove soluzioni stilistiche per una narrazione di grande forza. Il sole non si vede quasi mai e spesso la cinepresa inquadra fissa il buio della notte, con i latrati dei cani in sottofondo. Le immagini in movimento si alternano alle fotografie e Rong utilizza anche il bianco e nero. La voce fuori campo accompagna la discesa agli inferi, e la testimonianza dei sopravvissuti passa anche attraverso la fantasia: a volte sono i pupazzi e non gli uomini a raccontare il terrore. Quello di Rong è un modo di fare cinema ricco d’inventiva, pieno di vitalità nonostante il dolore della storia. È un linguaggio forse non a tutti accessibile, che porta lo spettatore a confrontarsi con i fantasmi quotidiani.