C’è una convinzione – che forse è solo un luogo comune dei commentatori – per cui ogni film di Kenneth Branagh sia sempre la variazione di un tema shakesperiano o comunque una rilettura alla luce del Bardo. Che Shakespeare sia il punto di riferimento se non l’ossessione dell’istrione britannico è cosa nota sin dal debutto sulle tracce di Laurence Olivier, l’altro grande nume tutelare.

Da quel lontano Enrico V ne è passata d’acqua sotto i ponti e, ormai al servizio dell’industria con adattamenti spettacolosi raramente memorabili, Branagh si è concesso un “ritorno a casa” tra un blockbuster e l’altro. Casa Shakespeare, arrivato da noi quasi da nascosto a due anni dall'uscita anglosassone (in VOD peraltro), è forse il più ispirato degli ultimi lavori di Branagh (ma non ci vuole molto).

Il titolo italiano sottolinea la dimensione privata, domestica, familiare di una vicenda che, in originale, si pone piuttosto come una riflessione dentro l’opera del Bardo. All is True cita un verso di Enrico VIII e ragiona proprio sul rapporto tra realtà e fiction, vita vissuta e rielaborazione romanzesca, menzogna e sortilegio.

 

A Branagh, ça va sans dire, la parte del leone, con un gigionismo compiaciuto eppure funzionale alla rappresentazione del mito, icona letteraria (auto)ridottasi a pater familias perché incapace di scrivere dopo il lutto assoluto del figlio scomparso a causa della peste. Sarà vero o la verità è un’altra? Ma papà Will conosceva davvero il ragazzo che ora piange? E quel ragazzino era il genio in fieri creduto dal padre o solo un “bambino ordinario” come sostiene la moglie analfabeta e più dolente di quanto voglia far vedere (Judi Dench: bello che una signora di oltre ottant’anni abbia l'occasione di interpretare un personaggio più giovane)?

Scritto da Ben Elton, che conferisce alla libera rievocazione una vivacità civettuola, e diretto con una certa cura spesso ammiccando al teatro (le riprese dal basso, il trucco artigianale, chiaroscuri con corpi dislocati ai lati del palco, lunghi dialoghi in interni) pur senza restare ingabbiato nella “scatola”, Casa Shakespeare è un ritratto di famiglia con tempesta che in una certa misura sa accordare il kammerspiel a una vaga atmosfera proto-cechoviana.

 

I coniugi sono anziani, stanchi, malconci e anche l’allusiva schermaglia romantica con il conte di Southampton (destinatario di sonetti amorosi: Ian McKellen si diverte, ci diverte) è ben bilanciata tra spirito sornione e leggera malinconia. Il giardino è il nuovo teatro ma le piante non sono come le parole.

E in questo bozzetto crepuscolare fanno macchia i momenti in cui Branagh/Shakespeare torna a dare forma alle parole all’interno della commedia della vita (la tirata contro il pretendente della figlia), mentre la partitura di affetti e dolori privati provvede a capire se questa vita sia all’altezza della sostanza di cui sono i fatti i sogni. Qua e là leziosetto complici le invadenti musiche di Patrick Doyle, ma meno accademico di quanto possa sembrare.