Sovversivo come ai tempi di Ultimo tango a Parigi, il burro - pardon Butter (fuori concorso) - è l'ingrediente che non ti aspetti in questa riuscita commedia scritta dall'esordiente Jason Micallef (una rivelazione), diretta da un giovane e sconosciuto inglese, Jim Field Smith, e prodotta con fiuto dal geniale Henry Weinstein.
Da accessorio culinario il burro diventa materia di cui sono fatti i sogni: di una arcigna e competitiva casalinga con problemi di autostima, Laura Pickler (Jennifer Garner), e della tosta orfanella di colore, Destiny (Yara Shahidi), 11 anni e molto da insegnare alla prima. Opposte per carattere e l'una contro l'altra per caso, le due primedonne del film - per ragioni diverse, sia la Garner che la Shahidi sono piacevoli sorprese - si sfidano in una competizione artigianale molto sentita in provincia (siamo nel Midwest), dove provano a superarsi con le loro strabilianti sculture di burro (ispirate all'arte di Norma Lyon).
Buona parte del fascino della pellicola risiede nella bellezza di queste creazioni (ci sono anche le riproduzioni dell'Ultima cena leonardesca e del delitto Kennedy). Realizzate con il più deperibile e povero dei materiali e attirando su di sè le più accese gelosie, le più sciocche ripicche e un delirio di assurdi investimenti collettivi e personali, sono proprio loro d'altra parte a svelare la faccia ipocrita, bigotta e ottusa della piccola America che pure inneggia e si atteggia alla Grande.
Satira antropologica, comunitaria e politica - la stoccata è tutta per il Tea Party, giusto per non allontarsi troppo da tavola - Butter deforma senza deformarsi, a metà tra l'iperrealismo e il grottesco. La storia si sfilaccia qua e là, non integra bene Olivia Wilde nei suoi ingranaggi (ma può una spogliarellista essere integrata alla buona gente della provincia?), si arrende a un lieto fine che più zuccheroso non si può e che più di un dubbio lo lascia. Ma forse è di burro anche questo.