Da un irriconoscibile Verhoeven un coraggioso atto d'accusa contro ogni guerra, estremismo e arrogante giustizionalismo dei vincitori. La storia di Black Book è semplice e le accuse di revisionismo del tutto speciose: l'oppressore schiaccia le minoranze, deporta, uccide. Gli oppressi muoiono, si organizzano, non demordono. Alla fine la spuntano, ma all'invertirsi dei rapporti di forza la loro vendetta sarà terribile. Cambiano le bandiere, ma le violenze sono le stesse, se non peggiori. A incarnare il paradosso è la vera odissea di Rachel Steinn (bravissima Carice van Houten), ebrea olandese che scampa ai lager infiltrandosi fra i nazisti, per poi rischiare il linciaggio, alla liberazione, dai suoi stessi compagni di un tempo. Siamo nel 1944, ma la storia è attualissima e Verhoeven non manca di sottolinearlo. La parola chiave è coraggio: già dirompente in sé, il suo scomodo parallelismo fra nazisti e resistenti, è per di più all'ordine del giorno della politica internazionale. Basta cioè l'autoinvestitura dei "buoni" a legittimarne metodi e crociate moralizzatrici? Per chi non cogliesse lo spunto fra le righe, Verhoeven inserisce poi un esplicito (e ancor più azzardato) richiamo all'oggi, contestualizzando incipit ed excipit in un kibbutz israeliano del '56, che alla fine sarà travolto da una nuova guerra. Un film sul nazismo, gli ebrei cattivi, la politica sotto accusa: la materia è incandescente e il terreno sdrucciolevole, ma nonostante qualche sbavatura e semplificazione, Verhoeven se la cava con coraggio.