Se non avessimo letto il suo nome sui titoli di coda, difficilmente avremmo riconosciuto la mano di Tim Burton in Big Eyes. Opera insolita in una filmografia di atmosfere notturne e stralunate, orfana dei freak, dei Frankenstein e della altre meravigliose creature che l'hanno resa così riconoscibile.

Big Eyes è invece storia vera, perfetta ricostruzione d'epoca (anni '50-'60), black comedy in piena luce. Bianca, abbagliante come il riflesso sull'asfalto, come la spuma di un'onda hawaiana, dove infine il film ci porta, dopo aver fatto sosta lunga a San Francisco. E sono forse le Hawaii e San Francisco mete burtoniane?

Esiste certo un filo sotterraneo che collega la vicenda esistenziale e artistica di Margaret Keane a quella di Tim Burton, a partire da quei ritratti di bambini dagli occhioni enormi di cui il regista di Sleepy Hollow si appropria con un rispetto del tutto sconosciuto invece al mefistofelico marito della pittrice (un Christoph Waltz esageratamente gigione), autore di una delle più gigantesche frodi mai registrate nella storia dell'arte.

D'altra parte, l'uomo che si attribuì le creazioni della moglie entra di diritto nella famiglia degli orchi, dei persecutori, dei padri infausti che tante volte abbiamo incontrato nel cinema di Tim Burton. E lei, Margaret (bravissima Amy Adams), è l'innocente principessa rinchiusa nella torre (la stanza di lavoro della villa dei Keane), come la sventurata di una qualunque favola dark.

Puri elementi burtoniani: come l'amore per la pop art; il retrogusto grottesco; l'ironia in fondo al dramma; l'orrore del conformismo (come sempre espresso nella dimensione del ridicolo, stigmatizzato con una sola battuta, inquadrato iperbolicamente, come nella scena del confessionale o in quella più autenticamente burtoniana del supermercato, dove Margaret vede occhioni ovunque, in una sorta di delirio da mercificazione).E in fondo il tema dell'autodeterminazione (qui in una declinazione tutta al femminile) è da sempre il prediletto dell'autore.

L'impressione però è che Burton semini nascondendo la mano. Come se l'ancoraggio alla cronaca non lo metta mai veramente a suo agio. Ritroviamo il graffio e l'invenzione qua e là, intuiamo la convergenza d'interessi con la Keane (di cui è amico), gli riconosciamo un paio di sequenze, ma il resto è mestiere.

Il film vive al di là di lui, è una buona storia, con una buona sceneggiatura, due ottimi attori e una confezione impeccabile, questa sì doc (è la “sua” squadra: lo scenografo Rick Heinrichs, la costumista Colleen Atwood, il direttore della fotografia di Dark Shadows Bruno Delbonnel e il musicista Danny Elfman).

Non è la svolta annunciata, ma un gioco a nascondino. In definitiva Big Eyes sta a Burton come il dipinto sta alla Keane.Con la differenza che la paternità, nel caso del film, resta dubbia fino alla fine.