Tante volte la bandiera agitata al vento è stata protagonista di scontri militari, simbolo di unificazione tra uomini uniti dallo stesso scopo o addirittura dal medesimo destino.

Ma a differenza di un contesto bellico nel quale il primigenio significato indicava una resa incondizionata, in Be My Voice il velo bianco sventolato in cielo sullo sfondo di paesaggi islamici, da sole donne riprese di spalle, significa speranza per la fine delle ostilità imposte da quel governo ancora profondamente arcaico.

Questa è la chiave del documentario d’inchiesta della regista iraniana Nahid Persson, residente ormai in Svezia, incentrato sulla storia di lotta attivista femminista di Masih Alinejad. Nata nel 1976 a Ghomi Kola, un piccolo villaggio dell'interno iraniano, la sua attività diviene quella di giornalista parlamentare a Teheran.

Prima donna a divorziare, ad essere espulsa dalla scuola e ad andare in prigione nella sua terra d’origine.

In seguito alle proteste, di cui lei stessa diviene voce, espatria a New York nel 2009, creando successivamente My Stealthy Freedom, una pagina Facebook nella quale invita le donne iraniane a liberarsi del velo, filmandosi.

La protagonista si mostra nuda dell’indumento che dovrebbe indossare secondo la sua religione: il hijab. Al suo posto una folta chioma, adornata sempre da un piccolo fiore, che grida ribellione.

Be My Voice

La stessa regista, simile alla fisionomia di Masih con gli stessi ricci scompigliati, diviene un tutt’uno con la sua storia, rompendo il velo e raggiungendo una forte empatia con la sua battaglia.

La barriera di separazione tra le donne islamiche con il resto del mondo, scopo primario del velo, viene così distrutto. Niente si cela, nulla rimane invisibile.

Masih canta. Masih ride. Masih balla sotto la pioggia a piedi nudi.

Nahid Persson la segue scrupolosamente non invadendo la sua storia, ma integrandola con quelle simili di altre donne. La ritrae in Primi Piani, dove gli occhi cerchiati alternano momenti di terrore a lucidità. Riprende il loro mutarsi anche in tempi brevi, come se la vita non potesse darle tregua.

Viene mostrato il rapporto con il marito, uno dei pochi uomini a cui viene dato risalto, anche lui giornalista politico e portatore dei suoi stessi principi.

In Be My Voice immagini di repertorio mostrano il potere della dittatura su chi non cede al silenzio. Torture, persecuzioni, arresti, carcerazione: è questa la fine per chi non si mimetizza con lo Stato.

I video si materializzano davanti ai nostri occhi e lo sguardo si abbassa, ma quello delle donne islamiche no; con la loro piccola fotocamera del cellulare fanno memoria di questa repressione.

Nel 1964 Hannah Arendt, in La banalità del male, per descrivere il nazismo affermava che il male è come un fungo che lavora in superficie, non può essere radicale, solo estremo e ricopre il mondo intero, devastandolo. Il pensiero invece ha bisogno di profondità, tenta di arrivare alle radici delle cose e viene frustrato nel momento in cui s'interessa al male, perché non riesce a comprenderlo.

Be My Voice ha lo stesso effetto: sensibilizza e coinvolge, emotivamente. Non c’è catarsi, ma piuttosto è una forbice che apre gli occhi e pone interrogativi che solo lo spettatore potrà risolvere.

Restituisce in compenso la forza e l’energia di una donna portavoce di un male comune, troppo distante dal pensiero capitalista di oggi. Se noi non riuscissimo a comprenderlo, dovremmo pensare alla forza dell’immaginazione. Masih quest’ultima ce la insegna: il solo aroma di una foglia di basilico, di cui si prende cura delicatamente, le permette di figurarsi nella sua terra natia, a più di nove milioni di chilometri di distanza.