Se è vero che il pugilato è in assoluto una delle cose più cinegeniche che esistano, è anche vero che, proprio per questa caratteristica, è uno dei soggetti più sfruttati dai cineasti: Kyzza Terrazas in Bayoneta prova a renderlo più originale mescolando la propria impronta culturale messicana con l’atmosfera finlandese.

Il protagonista del film infatti è un pugile messicano, soprannominato come il titolo suggerisce, che si è trasferito in Finlandia per sfuggire al suo passato.

Ma la sua passione per i guantoni lo porta a voler tornare sul ring, nonostante tutto. Lo spunto del copione del regista e di Rodrigo Marquez-Tizano è quasi archetipico per la sua semplicità, ma Bayoneta gioca appunto sullo spaesamento di un dramma esistenziale a metà tra noir e melodramma.

Terrazas cerca appunto di fondere due registri e due provenienze geografiche opposte aggiornando la mitologia del pugilato di periferia, qui estrema prossima com’è al Circolo Polare Artico, e personaggi degni di Città amara di Huston con laconiche malinconie scandinave e tormenti familiari latino-americani. Pur senza mai cercare un vero scatto di originalità, Bayoneta sa trovare un certo punto di equilibrio grazie alla mano del regista, al ritmo, a uno stile adeguato che non cerca mai l’esplosione.

Ma proprio per questa insistita sospensione il film sembra restare vago, irrisolto, cedendo verso il finale a un pathos che appare fuori contesto e slegato dal percorso dei personaggi e della regia.

Bayoneta sembra risparmiare anche sulla potenza e sul fascino plastico della boxe come elemento visivo, limitando ancora di più la propria capacità di appassionare, ma lascia intravedere le possibilità di un regista tanto acerbo quanto interessante.