Diverse e spregevoli qualità (sia detto con affetto) accomunano Woody Allen a Diogene il Cinico per non pensare a una comune genìa o agli effetti di un arcano rito trasmissivo. E il grande greco avrebbe di certo apprezzato il ritorno del maestro newyorkese al crudo, nevrotico e sferzante cabaret esistenziale di un tempo, attorno al quale ruotavano le commedie degli anni '70 - libere variazioni sul tema: "Io, Woody e Allen" - prima della dissociazione identitaria inaugurata da Zelig (1983), seguita da una produzione corale e metalinguistica, e culminata nella fruttuosa parentesi europea, di cui Match Point resta insuperato capostipite. Un percorso meno lineare di quanto si pensi, ma ciononostante coerente e dialettico, nel quale Basta che funzioni costituisce forse l'ultimo atto, momento in cui il cinema di Allen dopo essersi negato diviene nuovamente se stesso. Cambiato, certo. Perché Allen non è più Allen, ma un alter ego tremendamente simile a lui e irrimediabilmente "alter", un fisico (mestiere inimmaginabile per l'irriducibile umanista degli anni '70) di nome Boris Yellnikoff (Larry David), ebreo americano misantropo, sprezzante, logorroico e fisiognomicamente marcato come il suo modello, ma più disinvolto e sbruffone. Insolitamente impavido (a parte l'ipocondria), il nuovo vecchio Allen è cinico a più non posso (ne ha per tutti: dai neri ai gay, dagli intellettuali a Dio, "il grande Arredatore"), divertente come al solito ma sprovvisto della poesia di un tempo (e anche Manhattan, dove è tornato a girare dopo diversi anni, appare più anonima), forse anche un po' di maniera quando si auto-cita e strizza l'occhio alle sue ossessioni. La storia dell'ultimo film - come la drammaturgia, e la messa in scena - è nulla, non serve neanche. Per chiudere, forse per iniziare, un nuovo capitolo della sua personale storia, ad Allen non serve altro: un pubblico, un monologo e un altro da sé. Per ricordarci com'era, prima che qualcun altro, più disilluso e meno gigione, ne prendesse il posto.