Anna e Anders. Mamma iperprotettiva lei, bambino di otto anni sospettosamente apatico lui. Si trasferisono in un gigantesco edificio (à la Corviale), ad un indirizzo segreto, per evitare di essere trovati dall'ex marito di lei, padre violento che, a quanto sembra, ha più volte fatto del male al figlio. Per essere sicura che Anders sia al sicuro anche mentre dorme, Anna compra un babycall. Ma continue interferenze nell'apparecchio e l'improvvisa apparizione di un nuovo amichetto del figlio porteranno ulteriore scompiglio nella vita della donna. Fino alla tragedia.

"Un film su un'eroina moderna, sulla possibilità per ogni essere umano di creare da solo il proprio mondo", riportano le note di regia di Babycall, quarto lungometraggio del norvegese Pål Sletaune, interpretato da Noomi Rapace (un giorno qualcuno ci dirà perché è "diventata in tempi da record una delle star più richieste del cinema internazionale, non solo scandinavo ma anche europeo e americano"...): tutto vero, ma alla fine della visione - caratterizzata dall'ossessione progressiva della donna, incapace di "liberare" il proprio bambino e consegnarlo al mondo - è forte la sensazione di aver assistito a qualcosa di incoerente e sbilenco, da una parte, profondamente scorretto, dall'altra. Sì, perché se è vero che il cinema può, deve, accompagnare lo spettatore nei meandri di viaggi (mentali o non) anche impossibili, non è altrettanto vero che si possa piegare ad operazioni così apertamente smaccate, inverosimili. Per capirci, Pål Sletaune non è lo Shyamalan de Il sesto senso o l'Amenabar di The Others: e il "colpo di scena" finale non fa altro che amplificarne lo scarto.