Dopo il film shock di Bruno Dumont, Flandres, sulla follia della guerra e l'amaro Les lumieres di Aki Kaurismaki, è la volta del crudele Babel di Alejandro Gonzalez Inarritu. Quattro storie intrecciate, alcune più delle altre, e ambientate in paesi diversi. Si parte dal Marocco: due ragazzini sparano con il fucile per gioco, un colpo raggiunge un autobus di turisti ferendo gravemente un'americana (Cate Blanchett). E' in viaggio con il marito (Brad Pitt), sono partiti per ritrovarsi dopo la morte del terzo figlio appena nato. L'emorragia non si ferma, sono in pieno deserto, nessuna possibilità di raggiungere in tempo un ospedale. La guida li porta nel suo villaggio, il medico è un veterinario. Contemporaneamente a San Diego la tata dei loro due bambini deve andare al matrimonio di suo figlio. Non può lasciarli soli, ha appena saputo la notizia (si parla di attentato), li porta con sé, in Messico, dove complice Gael Garcia Bernal, sembra per almeno un'ora l'unico posto in cui valga la pena vivere. A Tokyo una giovane sordomuta cerca di superare il trauma del suicidio della madre seducendo chi le capita a tiro. Senza successo e sentendosi sempre più emarginata.Le trame si sviluppano e si attorcigliano intorno alla Babele del titolo, morte, dolore, disperazione non lasciano scampo neanche qui. Ogni mondo è paese: i poliziotti marocchini malmenano i connazionali, i californiani maltrattano i poveri messicani, i giapponesi si impasticcano e bevono whisky. Narrativamente potente e diseguale (firma lo script ancora Guillermo Arriaga), Babel si concentra sull'incomunicabilità, il vuoto esistenziale del nostro tempo e Inarritu segue la cacofonia di voci, culture e popoli in modo suggestivo e artificioso. Bravi gli attori, specie Cate Blanchett, ma il risultato è inferiore alle aspettative.