La storia della famiglia Torrenuova incrocia settant'anni di vicende cittadine e nazionali: tre generazioni di bagheresi (Mannina e Peppino, i loro padri e i loro figli) attraverso cui passano guerre e liberazioni, crolli e utopie, passioni pubbliche e private. Negli anni del fascismo è il pecoraio Cicco Terranuova (Alfio Sorbello da giovane e Gaetano Aronica da adulto) a non rassegnarsi alle durezze di una vita povera e avara di bellezza, abbandonandosi alle narrazioni del neonato cinematografo, dei grandi poemi cavallereschi e dei romanzi popolari. Nell'immediato dopoguerra toccherà a Peppino (Francesco Scianna) tentare di elevarsi e cambiare le cose abbracciando l'utopia comunista e una faticosa carriera politica. Ma sarà suo figlio Pietro (Gaetano Sciortino) a segnare il vero punto di non ritorno: abbandonate le antiche illusioni paterne, il ragazzo lascerà la Sicilia cercando di affermarsi come fotografo, e come uomo, altrove. L'enorme attesa attorno al kolossal italiano Medusa (per i costi e il dispiego dei mezzi, per la sensibilità e le ambizioni del suo autore) non viene ripagata del tutto: Baaria (nome fenicio di Bagheria che significa "porta del vento") è una versione macroscopica del cinema di Tornatore, una lente d'ingrandimento delle sue virtù e dei suoi limiti. Così se ogni personaggio (meglio Scianna della comprimaria Madè), movimento di macchina e taglio di montaggio testimonia della smisurata passione del regista siciliano per la narrazione per immagini, questa stessa passione tracima spesso nella dismisura retorica dei dolly e delle ellissi impossibili, della bella inquadratura, della musica in pompa magna (Morricone), e del colpo ad effetto. E se l'infantile ingenuità con la quale il cineasta di Bagheria affronta ogni impresa può essere il giusto correlato semantico per il minimalismo nostalgico alla Nuovo cinema paradiso, la stessa diventa un problema quando si vuol contenere quasi un secolo di vicissitudini italiane in due ore e mezza. L'emozione si perde dietro i troppi avvenimenti e personaggi, la ricostruzione, compressa, risulta per forza di cose monca. Imperdonabile che Baaria, pensato come affresco corale sulla storia - quella personale del regista e quella collettiva di varie generazioni siciliane - finisca per scambiare la memoria con la sua immagine stereotipata, e che rinunci al ripensamento - anche malinconico - del passato per una rievocazione piena di cliché e sentimentalismo (alla Sicilia di Tornatore non manca nulla dei suoi luoghi comuni e del suo rinomato folklore). Più sincero il regista quando trova in mezzo a tanto immobilismo accenti di vitalismo inaspettato (ciascuno in fondo persegue una sua personale battaglia: Peppino lotta per un un mondo migliore, la moglie per il riscatto sociale, la madre della moglie per l'onore del padre ammazzato dalla mafia), o quando per bocca di Peppino disilluso declama: "Noi Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le braccia corte". Qui c'é tutto il film. Il suo senso. E forse anche il suo valore.