“Sarà il tuo palco”, dice l’avvocato di Antigone alla ragazza. La giustizia e quindi i meccanismi dello Stato raccontati come forme spettacolari.

Da Sofocle alla regista canadese Sophie Deraspe pare non siano passati più di due mila anni, tanto più che questa versione “liberamente adattata” (ma a tratti un po’ pedante: la psichiatra cieca di nome Teresa, anziché Tiresia) della tragedia parte da un fatto vero, l’omicidio di un giovane di Montreal per mano della polizia e conseguente sommossa popolare.

Antigone racconta della protagonista eponima che decide di organizzare la fuga del fratello dal carcere dopo che è stato arrestato in una retata in cui hanno perso un altro fratello.

Antigone
Antigone
Antigone
Antigone

Lo fa con uno scambio di persona, ma il processo che ne seguirà solleverà molte più questioni di quante la ragazza non credesse.

Scritto dalla stessa regista, il film è una tragedia greca calata nei tempi odierni anche come sensibilità di racconto e tono narrativo.

Deraspe infatti più che alla potenza sovrumana del tragico guarda al naturalismo del dramma, alla disinvoltura di un noir dai risvolti politici che però è raccontato stando attenti al contesto, ai personaggi più che alle loro azioni; proprio nello scarto tra quelle azioni e le conseguenze stanno le debolezze, prima narrative poi ideologiche, di Antigone, nel semplicismo con cui esalta acriticamente il valore della famiglia al di sopra dell’essere umano, con cui forza il proprio understatement in nome di una certa retorica populista.

Deraspe però mostra uno sguardo forte nella messinscena e nel rapporto con i suoi attori (mostruosa la bravura della protagonista Nahéma Ricci), un talento molto interessante nel mescolare e stemperare le rigidità della scrittura e una certa abilità nel trarre sorprese dal contesto qubecois raccontandone la contemporaneità oltre la rappresentazione stereotipica. È qui che Antigone segna la differenza e può dirsi centrato.