Schema ideale per colpire i cuori e permettere quei lunghi silenzi cinematografici pieni di dolore, attese, interrogativi, che durano Tout un hiver sans feu: coppia isolata (le montagne del Giura svizzero), tragedia alle spalle (sono passati all'incirca sei mesi da quando la bimba di cinque anni è morta, forse per distrazione dei genitori, nel rogo di una stalla), sensi di colpa a profusione, mente della mamma che vacilla e crisi d'identità del padre, collasso finanziario in prossimità, tentazioni, evasioni, peccato, purificazione. Di fondo, l'interrogativo: quali strade intraprendere per ritornare alla vita? Seguire l'istinto che prevede il ricongiungersi al sentimento e alla speranza (rappresentato da una profuga del Kosovo) oppure lasciarsi scivolare nell'esasperato "nulla" che è spesso il frutto più maturo del dolore? Il segno di raccordo tra l'inizio e la fine dell' interminabile inverno "senza fuoco" di Jean e Laure, i genitori colpiti da tanta catastrofe, sono due cornacchie nere, simbolo del destino, della morte ma anche dell'indissolubilità degli affetti e della fedeltà (o solidarietà) coniugale, che alla fine, infatti, trionfa. Il polacco Greg Zglinski (ma il film porta bandiera svizzera, ed è lì che il regista è vissuto per quasi vent'anni) non lesina elogi e ricordi del suo maestro alla scuola di cinema di Lodz (ma solo per pochissimo tempo), Krzysztof Kieslowski. Il suo tocco, anche nella veste cameristica della confezione, non è assente nell'opera volonterosa di Zglinski e dei due bravi attori, Aurélien Recoing e Marie Matheron. Ma è anche il tempo, ormai, di affrancarsi da questi rigidi schemi formali e narrativi.