Mentre una delle due protagoniste di Adolescentes frequenta uno stage in un asilo, la responsabile le fa un discorso sulla differenza tra affetto e attaccamento, sulla distanza come filtro indispensabile per poter fare bene quel lavoro. Sembra che quel ragionamento sia alla base del film di Sebastien Lifshitz e di tutto il suo cinema.

In questo caso, il regista ha seguito per 5 anni due adolescenti, appunto, lungo il periodo del liceo, raccontandone la relazione tra di loro e con le persone a loro care e mettendole in rapporto con la Francia e i suoi cambiamenti, il terrorismo e il lepenismo. Un documentario d’osservazione che ha la paradossale naturalezza di un teen-drama nel quale il regista porta alle estreme conseguenze il suo metodo.

Lifshitz mescola Boyhood di Linklater e La classe di Begaudeau/Cantet, segue le ragazze e le loro famiglie attraverso i rispettivi percorsi e drammi e più che raccontarne le scelte e le conseguenze cerca di mostrarne le vite, le comunità, le differenze di visione e di maturazione di cui si compone ciò che chiamiamo crescere, ossia prendersi quelle responsabilità che prima si addossavano ad altri.

È interessante in questo senso la parallela tessitura con il momento cupo che ha vissuto la Francia, gli attentati e la reazione dell’estrema destra, come se anche la nazione attraversasse le sue fragilità, fosse esposta come il cuore e l’animo di un adolescente che comprende quanto la crescita sia legata all’elaborazione dei “lutti”.

Attraverso un montaggio che ha cesellato più di 500 ore, Lifshitz è riuscito a raggiungere un grado di verità notevole, frutto dell’incontro tra lo studio e la meticolosità del regista e la spontaneità di ambienti e persone: ha potuto farlo proprio in virtù di quella distanza che separa l’affetto dall’attaccamento, l’emozione dalla retorica, che gli ha permesso di stare con i ragazzi, in mezzo a loro, cercando di sentirli e capirli prima di raccontarli ma rendendo il suo film importante anche (soprattutto?) per i genitori.