È un film circolare, A Man (Aru okoto in originale), presentato in concorso a Orizzonti alla Mostra di Venezia, che parte dove finisce e finisce da dove parte. Non è uno spoiler, ma una chiave di lettura, una tra le tante, per un film che lavora continuamente sulla sottrazione e sulla reticenza, sull’ipotizzare e sul ricostruire.

Tutto sommato, è la storia di un matrimonio, anzi le scene e i retroscena, perché del ménage vediamo poco, fin dove ci è concesso dalla sceneggiatura di Kosuke Mukai (suo il bel romanzo I gatti non ridono), e sentiamo molto, in quel dopo che è anche un tentativo di riappasamento in un immaginario sentimentale e privato messo a repentaglio dall’incursione del dubbio.

A Man, con quel titolo che convoca l’indeterminazione di un articolo senza proprietà, mette in scena Rie, che dopo il divorzio si è rifatta una vita con Daisuke. Che, destino cinico e baro, muore tragicamente. Colui che sembrava un uomo trasparente si rivela, tuttavia, più misterioso di quanto volesse far credere. E Rie si rivolge a un avvocato affinché faccia luce sulla vera storia dell’uomo che amava e continuerà, comunque, ad amare.

Non si deve svelare troppo del film di Kei Ishikawa, che torna nella selezione di Orizzonti a sei anni da Gukôroku. Se quella era un’inchiesta insoluta alla quale il detective (in quel caso un giornalista) voleva dare un finale, questa sembra procedere al contrario: c’è un altro investigatore che non deve dare un epilogo a una vicenda ma deve cercarne l’inizio, tornare all’origine.

È un’indagine nel passato, mai come qui una terra straniera per chi prova ad avvicinarsi per vederlo meglio, e su come la verità sia la messinscena di un punto di vista, su quanto l’identità possa essere un concetto sfuggente, da piegare alle esigenze del momento, da usare per emanciparsi dalla mera funzione dell’esistere al fine di scegliere chi e come e dove e perché essere.

A Man è un giallo inquietante nella sua apparente imperturbabilità, che affronta di petto quelle verità che vogliamo credere cristalline per l’incidenza della memoria degli affetti, del quotidiano che ci manca, della consuetudine di un amore che, nonostante silenzi e menzogne, ci aiuta a sopravvivere.

Ishikawa non eccede mai, plasma la sua detection intima soppesando i toni e misurando le tonalità, lavora su teoria e pratica del racconto investigativo costruendo la suspense sull’affastellarsi dei dubbi, sulla lentezza interrotta da picchi rivelatori, sulla progressiva espressione di una verità tanto evidente quanto oscura.

Un film che interroga il dolore e le sue conseguenze, a cui forse manca un po’ di empatia nel dispiegarsi nell’arco di due ore, ma davvero interessante per come ci accompagna in un labirinto tortuoso senza avvertirci sull’impatto finale.