“Una torbida storia di avvincenti scoperte in nuovi territori della sessualità e dell'intelletto”. Non è Harmony, ma questione di metodo: A Dangerous Method di David Cronenberg, in concorso a Venezia 68. Di metodo, in effetti, ce n'è fin troppo in stile molto divulgativo, ma non in regia: tratto dallo spettacolo teatrale (The Talking Cure) dello sceneggiatore premio Oscar Christopher Hampton, il triangolo tra Carl Jung, Sigmund Freud e Sabina Spielrein è di impronta e imprinting televisivo. Uno sceneggiato, paratattico e tradizionale, afflitto da aulica verbosità e legato a doppio filo al genitore teatrale: insomma, non va, ancor più considerando il nome  e cognome in regia.

A Dangerous Method è un film di Cronenberg? Secondo noi, non lo è, almeno se per Croneberg intendiamo quello duro e puro de La mosca, Inseparabili, M.Butterfly. Viceversa, prosegue la china di Spider, A History of Violence e La promessa dell'assassino - i suoi ultimi tre film, non solo cronologicamente… - ma l'isterizza per contrasto, deprimendo la poetica, tenendo in rigoroso fuoricampo le peculiarità, le idiosincrasie del regista canadese e finendo meramente per illustrare una storia straconosciuta eppure anche qui fondamentalmente incompresa.

Cronenberg sceglie subito da che parte stare: Jung, “il più grande psicologo - chiosa l'incomprensibile cartello finale - di sempre”, a scapito di Freud, con la Spielrein che fa da metronomo terapeutico e punchball emozionale tra i due, al netto dello spanking gentilmente offertole dall'amante Jung. Tutto il resto è noia rettilinea: la singolare e intellettuale tenzone tra i due non è sviluppata come conviene, e come converrebbe, relegandola a pochi “diverbi”, molte lettere e poco cinema. Un'occasione sprecata, con Jung che - almeno qui - preferisce la deriva “spregiudicata e  amorale” sulle tracce di Otto Gross (Vincent Cassel, bravo), collega psichiatra in vena di anti-monogamia: che c'azzecca questa digressione - regressione - molto narrativa e poco storicizzata?

Boh, ma il peggio è altrove: se Viggo Mortensen (Freud) e Michael Fassbender (Jung) fanno il loro onesto compitino, a fare danni è la bella e basta Keira Knightley, che fa di prognatismo (scucchia) unica virtù, incarnando un'isteria da macchietta. Non è solo merito suo, ma l'emozione latita davvero, imprigionata in un'architettura saggistica senza profondità e in una decorazione romantica che fatica a trovare un'autentica residenza: saranno pure relazioni pericolose, ma il metodo qui è solo titolo e calco (l'ennesimo: diciamocelo, a chi interessa ancora questa storia?), la psicanalisi la grande sconosciuta, il triangolo quello no di Renato Zero. Con Cronenberg che finisce per ridursi a Carneade: chi era costui?