Che bravo, Fabrice Luchini. Soprattutto, che ovvietà dirlo. E’ bravo, bravissimo, Monsieur Luchini, e non fa nulla per nasconderlo: che sia cinema o teatro, lui incanta, e per rimanere alle prove più recenti sul grande schermo chi ha visto Nella casa, Gemma Bovery e Moliere in bicicletta sa bene di che parliamo.

Stavolta si mette al servizio di Christian Vincent, sceneggiatore e regista de L’hermine (L’ermellino, che borda la toga del giudice), in Concorso a Venezia 72. Il nostro interpreta il signor giudice, anzi, il signor presidente di Corte d’Assise Xavier Racine: non ha buona nomea, per le pene in doppia cifra che commina e, ancor più, per l’abitudine ad asservire il processo, a imbrigliarlo per, dicono i detrattori, spirito di protagonismo. Quando ne facciamo la conoscenza, ha una febbrona e un’iniezione di anti-dolorifico che non può essere rimandata: esce in piena notte, cade pure per strada. Verremo a scoprire, un incidente gli ha lasciato un’anca in pessime condizioni e, sempre sul piano privato, sta divorziando. Al tribunale il caso è quello di una neonata uccisa a calci: il sospetto è il padre, che però dopo una frettolosa confessione ora si dichiara innocente.

Tra i giurati c’è una vecchia conoscenza di Racine, ovvero l’anestesista che si prese cura di lui durante le sette settimane passate in ospedale sei anni prima: è splendida, è danese, si chiama Birgit Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen) e il nostro Monsieur le President ne è, ancora, innamorato.

Interpreti splendidi, Luchini trascina tutti, sceneggiatura che dosa humour e sentimenti con sapienza, L’hermine miscela romance e court drama con gusto, eleganza e sensibilità, ovvero, per dirla francese, ibridando esprit de finesse ed esprit de geometrie. Un gioiellino, un piccolo film che riconcilia con il buon cinema. PS: pleonastico, ma Luchini è da Coppa Volpi.