Oslo, 22 luglio 2011. Un furgone esplode nel cuore di Regjeringskvartalet, quartiere dove si trovano i palazzi governativi norvegesi, di fronte all'ufficio del primo ministro Jens Stoltenberg: otto morti e 209 feriti, 12 in modo grave.

Neanche il tempo di comprendere che cosa stesse accadendo, poco meno di due ore dopo, sull’isola di Utøya, ad una quarantina di chilometri da Oslo, un uomo vestito da poliziotto apre il fuoco sui giovani presenti per il campus organizzato dal Partito Laburista norvegese: 69 morti, 110 feriti, 55 in gravi condizioni.

Paul Greengrass torna all’atto più violento mai accaduto in Norvegia dai tempi della II Guerra Mondiale. Doppio attentato compiuto da una singola persona, Anders Behring Breivik, arrestato ad Utøya in flagranza di reato.

22 July
22 July
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Paul Greengrass sul set di 22 July

Il regista britannico prende spunto dal libro Uno di noi - La storia di Anders Breivik (One of Us) di Åsne Seierstad e si cimenta nuovamente con la trasposizione di un fatto realmente accaduto dopo Bloody Sunday (2002), United 93 (2006), in parte Green Zone (2010) e Captain Phillips - Attacco in mare aperto (2013).

Questa volta, però, sembra interessarsi maggiormente alle conseguenze dell’atto piuttosto che all’atto in sé: se in passato l’interezza dei film narrava “l’avvenimento”, pensiamo ad esempio a United 93, che in tempo (quasi) reale raccontava uno dei dirottamenti aerei dell’11 settembre, con 22 July il regista cerca di rintracciare l’immediato “dopo”, le ripercussioni successive, fino al processo e alla sentenza di condanna per Breivik.

E si concentra su tre aspetti, quello ideologico/politico, quello del dramma privato attraverso la vicenda di un giovane sopravvissuto, il calvario della riabilitazione fisica e psicologica, quello infine della legge e della democrazia, incarnati dalla figura dell’avvocato difensore di Breivik, Geir Lippestad.

Questo è il quadro generale del film. O meglio, la cornice. Targato Netflix, July 22 chiede sin da subito uno sforzo allo spettatore: ambientato in Norvegia, ovviamente, interpretato da attori norvegesi (Anders Danielsen Lie è Brevik, Jonas Strand Gravli è Viljar, il ragazzo sopravvissuto, Jon Øigarden è l’avvocato del terrorista), è però recitato in inglese. Creando in questo modo un cortocircuito fruitivo quantomeno fastidioso, una separazione dal contesto in cui ci chiede di calarci. A questo punto, domandiamo, non avrebbe avuto più senso affidarsi ad un cast di star internazionali?

Capace comunque di creare una discreta tensione già al pronti-via, con la cronaca dei due attentati ravvicinati, Greengrass cede però successivamente il passo ad una resa meno avvincente, quasi appiattendosi “televisivamente”, insistendo troppo sull’aspetto forse meno interessante, quello della vittima (meno interessante perché visto e rivisto) senza però abbandonare quello che, crediamo, fosse lo scopo originario dell’intera operazione.

22 July
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Quello cioè di andare a rintracciare il primo, vero manifesto del cambiamento che stava attraversando l’Europa e il mondo occidentale: l’onda populista che la crisi economica del 2008 e la crescente “paura” dei flussi migratori ha generato, sembra volerci ricordare il film, esplode con veemenza, la prima volta, attraverso “il gesto” di Anders Breivik: “Pretendo il blocco delle immigrazioni e la fine del multiculturalismo”, due tra i motivi ideologici che lo spinsero a quella mattanza.

Che non è stata, come spesso ci piace autoconvincerci quando si tratta di attentati di matrice non riconducibile a qualcuno di “diverso” da noi, “l’opera di un folle”, ma il piano premeditato di un uomo guidato da un’ideologia ben riconoscibile. E definita.

La stessa, sulla carta, che muove le convinzioni dello Steve Bannon inquadrato da Errol Morris in American Dharma (proprio oggi, guarda caso, alla Mostra di Venezia), l’ex ideologo che ha contribuito in modo determinante all’ascesa presidenziale di Donald Trump. Cinque anni dopo Utøya. Due anni prima di oggi.

E proprio per questo, 22 July è un film importante. Ma riuscito poco.