12 personaggi, 12 verità: è questo l'incipit della sinossi - riportata sul press-book - di 12, ultimo film del regista russo Nikita Michalkov, già Leone d'Oro alla Mostra nel 1991 con Urga - Territorio d'amore. 12 verità per 12 personaggi, e fin qui concordiamo: a mancare è la tredicesima, quella del film. L'operazione di Michalkov è furba come poche: prendere La parola ai giurati, celebre film di Sidney Lumet, Orso d'Oro a Berlino nel 1957 e tre nominations agli Oscar, e farne il remake, calato nell'hic et nunc russo, che oggi soprattutto agli occhi internazionali significa Cecenia. Non che Michalkov fosse digiuno dell'originale di Lumet: all'Istituto Teatrale Schukin di Mosca aveva messo in scena il testo di Reginald Rose, a cui lo stesso regista americano si era ispirato. Là il cast era di prim'ordine, solo qualche spanna sotto l'inarrivabile Henry Fonda, qui non è da meno, con 12 ottimi interpreti, forse a tratti sopra le righe. Della compagine è lo stesso Michalkov, incline per tradizione al cammeo più o meno dilatato, che qui se ne sta buono per gran parte del film, salvo ritagliarsi un finale auto-celebrativo quanto irritante. Non è la claustrofobia della palestra in cui sono riuniti i giurati a rendere indigesta la visione, bensì la logica sottostante all'operazione: basarsi sulla solidità drammaturgica dell'originale, riprodurla complice la bravura degli interpreti, e inserirvi - anzi, accostarvi/sovrapporvi - il dramma ceceno, con una soluzione paternalistica, che esalta rettitudine e generosità dei russi, in primis il "salvatore" Michalkov, che si prenderà cura del giovane ceceno ingiustamente accusato. Una visione "buonista" atta all'esportazione, gli spettatori non cadano nel tranello.