Effetti Collateral(i): come può uno dei registi più bravi e meno premiati di sempre scegliere chi premiare? Scherzi del destino, succede a Venezia, dove il sommo Michael Mann è chiamato a scegliere Leone d'Oro e altri illustri felini alla 69esima Mostra. Escludendo - il regolamento della Biennale lo può cambiare solo Quentin Tarantino, ricordate? - che Mann possa ricompensarsi in prima persona, il cortocircuito “non premiato / premiante” rischia di smuovere le placide, talvolta immote, acque della Laguna.
Fronte degli Academy Awards, Mann è a bocca asciutta: tre nomination per Insider, una da produttore per The Aviator, zero statuette. Ed è in buona compagnia: Hitchcock, Kubrick, anche loro snobbati dagli Oscar, e ormai senza rimedio. Chissà come andrà a lui, ma al Lido arriva consapevole dell'importanza di un premio e, ancor più, della non importanza di un premio. Da spaccare testa e pensieri, ma c'è altro: chi, scorrendo la sua filmografia, potrebbe pensare a una predilezione per il “genere d'autore”, spesso con la pistola fumante e sempre con il grilletto premuto sullo Stile… si sbaglia. “Io tendo a non voler ripetere lo stesso genere”, e se mutatis mutandis valesse pure da presidente giudicante?
Premierebbe una commedia, di quelle senza colpo ferire, addirittura, alla volemose bene, se lo Stile non venisse a mancarle. Del resto, basti pensare a quel che ha fatto Moretti a Cannes ultima scorsa: “Non premierà mai Michael Haneke, il suo cinema proprio non gli va giù”, e s'è visto. La prima volta di Mann alla guida della giuria di un festival internazionale, dunque, potrebbe scardinare l'assunto, legittimamente desunto da Nemico Pubblico, Miami Vice, Manhunter e compagnia bella, che la cornice di genere sia oggi il modo migliore per inquadrare il mondo: “No, non credo proprio”.
E crolla un'altra certezza, insieme all'equazione - molto off Hollywood e molto festivaliera - low budget uguale alta qualità: dai 120 milioni di dollari del budget preventivato Miami Vice era schizzato a oltre 200 (promozione esclusa), colmati solo per un terzo al box-office patrio. Dion Beebe alla fotografia e altri Dreams that money can buy, ma Mann non fa una piega: il pauperismo ad altri, lui spende, spande e perché non dovrebbe capire chi fa altrettanto? 
Se non sarà più Luck, fuoriserie tv azzoppata dopo al prima stagione per troppi cavalli azzoppati sul set, ora in cantiere ha un thriller, The Big Stone Grid, d'ambientazione cinese, un'epopea storica sulla battaglia di Agincourt anno domini 1415, una dedica filmata al celebre fotografo di guerra Robert Capa, Go Like Hell sulle corse automobilistiche e Gold, prodotto da Paul Haggis. Di tutto e di più, manco fosse un palinsesto Rai, ma se dietro la macchina da presa è mare magnum, in sala di proiezione Mann può darci due giudiziose certezze. La prima sulla violenza: “Non c'è bisogno di mostrare sangue e coltellate, è più efficace se arriva al pubblico nello sguardo delle vittime”.
Splatter non salvato, autori mezzo avvisati. Seconda avvertenza, qual è il suo modo di intendere la regia? “Non si tratta solo di sapere dove mettere la macchina da presa, il regista è responsabile di tutto, dal divano in scena alle tende, passando per acconciatura e trucco. E non è che gli attori vanno lì, si studiano le battute e recitano: bisogna creare un curriculum perché capiscano chi è il loro personaggio”. Cineasta totale, giudice totalizzante, i colleghi sono avvisati: la sfida di Michael Mann è appena iniziata.