“X significa infinite possibilità”. E’ Yoshiki, il leader degli X Japan, a parlare. Qui in Italia difficilmente lo si conosce, ma in Giappone è un idolo tanto da essere considerato la più grande rockstar del Paese. Ha suonato per l’imperatore e detiene, insieme alla sua band, il record assoluto di affluenza allo stadio di Tokyo (55.000 posti a sedere), avendolo mandato sold out per 18 volte.

Ora grazie al documentario We are X (in uscita a novembre) diretto da Stephen Kijak e prodotto da Passion Fruit, il team premio Oscar per Searching for Sugar Man, avremo modo di conoscerlo anche qui in Italia. E potremo così scoprire la storia degli X Japan. Pionieri del visual kei, i Rolling Stones del Giappone dal 1982 fino ad oggi hanno venduto 30 milioni di dischi e hanno suonato davanti a migliaia di fans in tutto il mondo tra cui al Madison Square Garden di New York.

“Anche se il nostro look è piuttosto dark con la nostra musica vogliamo dare il messaggio di quanto la vita sia importante perché niente è impossibile e tutto è possibile”, dice Yoshiki durante l’intervista in occasione del lancio del documentario. Parla con voce fioca, è magrissimo, pallido e super truccato. Sembrerebbe un fuscello privo di forze se non fosse che quando lo vedi suonare la batteria sul palco tira fuori un’energia incredibile.

 “Suono la batteria con intensità e ho avuto diversi problemi fisici. Ho anche avuto un intervento chirurgico al collo quattro mesi fa”, racconta il frontman che a furia di muovere la testa su e giù mentre suona si è deformato l’osso del collo e che è affetto da dolori cronici alle braccia e alle mani, tanto che porta fisso un tutore sul polso. Inoltre fin da quando è piccolo spesso deve andare in ospedale perché soffre di una grave forma di asma. Ma per lui la musica è tutto e così nonostante i dolori fisici e nonostante a fine concerto spesso svenga per via dei suoi problemi respiratori continua a suonare e a salire sul palco. Non c’è niente che lo fermi e infatti non ha mai smesso da quando ha cominciato all’età di quattro anni con il pianoforte per poi passare alla batteria quando aveva dieci anni subito dopo il suicidio del padre. “Quello è stato un giorno che mi ha completamente cambiato- dice Yoshiki nel documentario- Ero furioso, molto depresso. Dopo la sua morte mia madre mi comprò una batteria. Invece di rompere le finestre e le cose, picchiavo la batteria”.

La sua vita non è stata facile: non solo la morte del padre (che aveva un negozio di kimono ed era un ballerino di tip tap), ma in seguito anche lo scioglimento del gruppo nel 1997 perché il cantante Toshi, plagiato da una setta religiosa, abbandonò gli X Japan (poi pentito tornò sui suoi passi nel 2007, esattamente dieci anni dopo) e infine il suicidio del chitarrista Hide e del bassista Taiji. Forse è per questo che Yoshiki durante l’intervista consiglia ai giovani di oggi di: “non dare tutto per scontato, ma di prendere ogni cosa che abbiamo come un miracolo”.

Lui non si arrende e cerca di salvare vite con la sua esperienza, così come si augura di poter contribuire come artista per la pace nel mondo. “Che cosa stiamo facendo? E’ come se non vivessimo nel 2017. Che abbiamo imparato dopo la prima e la seconda guerra mondiale? E’ tutto così triste”, dice Yoshiki commentando le minacce della Corea del Nord al Giappone. Lui, che tra le sue band preferite cita i Sigur Ros e i Radiohead, ora vive a Los Angeles, ma gli piacerebbe vivere da qualche parte in Europa: “magari a Parigi o in Italia”. Per ora viaggia moltissimo impegnato nel lancio mondiale del documentario We are X ed è la prima volta che viene nel nostro paese. Sabato è stato al Festival dei popoli di Firenze, unica tappa italiana del tour europeo del film, e da novembre lo vedremo sul grande schermo. Infine, per gli appassionati del Giappone, ha lanciato una sua linea di kimono, presentata l’anno scorso sulle passerelle di Tokyo.  Ancora una volta l'arte, la musica e la creatività rappresentano la via maestra per affrontare la sofferenza e Yoshiki ne è l'esempio.