“È l'anno dei racconti delle case. Anche in Posti in piedi in Paradiso c'è la storia di una casa, squallida, vuota, specchio del momento tragicomico attuale. Ma è l'opposto di quella che per tanto tempo mi ha protetto, abbracciato con le sue mura umbertine, e che è diventa un essere vivente e ha ascoltato le parole, ha visto le nascite e le morti”. Così Carlo Verdone parla con commozione della casa paterna alla folla di fan accorsi alla Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi a Roma per la presentazione del suo libro La casa sopra i portici, edito da Bompiani. E' arrivato puntuale e come un divo, dal piccolo palco, ha salutato mandando baci alla platea, che ha subito respirato l'atmosfera familiare che c'è nel libro. “Un'autobiografia atipica - dice il curatore Fabio Maiello - che Carlo fa attraverso la casa nella quale ha trascorso 30 anni. Un flusso di ricordi senza ordine cronologico, dal giorno in cui torna nell'appartamento in Lungotevere dei Vallati, 2 per riconsegnare le chiavi all'addetto del Vicariato dopo la morte del padre. In quel momento si materializzano i bellissimi fantasmi della sua vita e c'è tutto il Verdone malincomico. Sembra di assaporare gli odori e i sapori di quella casa. Le feste dannunziane in cui i maschi interpretavano D'Annunzio e le femmine la Duse, o ancora, le visite dei Grandi da Leonard Bernstein a Alberto Sordi, Roberto Rossellini, Federico Fellini”.Il critico letterario chiamato per l'occasione non può che essere Filippo La Porta, amico e compagno di liceo del regista: “Questo libro - spiega La Porta - è The Dark Side of Carlo Verdone, per rifarci ai Pink Floyd tanto amati da Carlo, perché fa emergere il suo lato in ombra. Viene fuori la malinconia, l'amore per la solitudine, il confronto ravvicinato con la morte, la struggente pietas per i propri genitori e l'abbandono a momenti di incanto nelle notti romane di mezza estate. Lui che è diventato l'idolo dei coatti, scrive un'elegia delle buone maniere che è la radice del sano moralismo di tutto il suo cinema”.  Quando la parola passa nuovamente al regista il primo pensiero è per i suoi: “Devo molto alla mia famiglia e questo libro è dedicato a loro. Se non mi avessero educato allo stupore e alla meraviglia io non sarei stato allenato ad assorbire i dettagli che poi avrei portato al cinema. Già dentro casa c'era un teatro: le donne di servizio, come si chiamavano una volta, hanno allenato la mia immaginazione attraverso le loro favole, sempre ispirate ai loro luoghi: il mago era “de Frosinone”, la fata era “de Latina”, la principessa era “de Alatri”. Carlo Verdone racconta la vita in quelle stanze alternando momenti dolenti a momenti di grande allegria e divertimento. Per venti minuti la Galleria di via del Corso assiste ad un “One Man Show” con il racconto di tre scherzi formidabili (che non svelerò perché vale la pena leggerli nel libro): un raffinato scherzo telefonico propinato al padre, un altro atroce, sempre ai genitori, con una messinscena degna di Dario Argento - “da galera, perché mi piaceva far paura alla gente e me ne vergogno ancora” - al quale il signor Verdone reagisce con “un gesto ottocentesco - che l'attore mima - come in Amarcord di Fellini, brandendo la cintura e prendendomi a cinghiate nonostante avessi 23 anni”. E uno crudele giocato allo stesso Verdone dal maestro d'avanguardia Gregory Markopoulos, idolo del giovane Carlo. “Dopo il liceo, infatti - racconta Verdone - cominciai a girare film sperimentali con una Super 8 che Isabella Rossellini mi vendette per 80.000 lire. Amavo il cinema sperimentale americano di Andy Warhol, Yoko Ono, Kenneth Anger. All'epoca facevo poemetti visivi molto intellettuali e con uno vinsi anche un festival internazionale a Tokyo”.Poi l'incontro vira ancora e si trasforma in una lezione di letteratura quando Verdone confessa i suoi autori preferiti descrivendone con sorprendente puntualità la poetica e le affinità: i classici greci e latini per primi, Seneca e Flaiano, i Crepuscolari, Anton Cechov, “che malinconico riesce a rendere le penombre” e Guy de Maupassant, “il più saccheggiato dal cinema perché scrive per immagini”. Ed è subito sfottò, La Porta gli dice serio: “Quella casa sui portici sul lungotevere all'inizio di via Giulia sarà come la casa di Thomas Mann a Lubecca”. E Verdone lo interrompe: “Esagerato! Però una targa mi piacerebbe tanto: qui è nato Carlo Verdone. La voglio!”.  Dopo aver ringraziato gli amici e il produttore Aurelio De Laurentis seduto in prima fila chiude dipingendo un nostalgico acquerello romano: “Mi piaceva scavalcare i terrazzi condominiali per vedere Roma dall'alto, con le luci che lentamente si accendevano mentre calava il primo buio. Con il mio caro amico Giovanni Baldi fumavamo una sigaretta in silenzio, guardavamo il fontanone che s'imbruniva. Con questo libro mi sono illuso di fermare il tempo: spero di condividerlo con chi ha la mia età e che i ragazzi possano capire che qualche decennio fa c'era più poesia, più bellezza e, se mi permettete, più dignità”.