“E' la continuazione di Cloverfield: là un film di genere horror raccontato dal punto di vista particolare della handycam; qui un film di genere che sembra sui vampiri ma parla di altro”. Così il regista Usa Matt Reeves parla di Blood Story (traduzione Filmauro, in originale: Let Me In), ovvero il remake dello svedese Lasciami entrare (Let the Right One In) di Tomas Alfredson, entrambi adattamenti del bestseller omonimo di John Ajvide Lindqvist (Marsilio, 2007).
Già fuori concorso al quinto Festival di Roma e da domani nelle nostre sale distribuito da Filmauro, co-prodotto dall'inglese Hammer dopo 30 anni d'assenza, questa copia è abbastanza conforme e sostanzialmente riuscita: dai sobborghi di Stoccolma si passa al New Mexico, mantenendo gli anni '80, con Reagan che in tv divide Bene (americano) e Male sovietico) come fossero acqua e olio… Protagonista, il 12enne Owen (Kodi Smit-McPhee, già in The Road), vittima del divorzio dei genitori e del bullismo di alcuni compagni di scuola, che fa amicizia con la nuova vicina di casa, Abby (Chloe Moretz, stellina di Hollywood e prossimamente nell'Hugo Cabret di Scorsese): occhioni, biondina e anche lei dodicenne. Ma da molto tempo, perché dopo alcuni "fatti di sangue" Owen scoprirà che Abby è un vampiro.
“Ho letto il libro e sono un fan della pellicola originale, perché mi sono identificato con la storia: dagli anni '80 al bullismo, passando per la difficoltà di crescere, è per me parzialmente autobiografico”, confessa Reeves, attirato nella missione remake dalla “purezza, la contrapposizione tra l'horror e la tenerezza dei due protagonisti: è abbastanza inusuale nel genere, perché il lato umano non scompare mai, come del resto accadeva ne L'esorcista”. 
“L'horror - prosegue l'amico e collaboratore di J.J. Abrams - può essere un buon modo per esplorare le proprie paure, la metafora per arrivare a qualcosa di molto vero:  nel mostro gigante di Cloverfield incarnavo le ansie della New York odierna, qui affidati al vampire-movie ci sono le difficoltà della preadolescenza”. Perché, letteralmente, il vampiro non muore mai: “Ce ne sono molte di storie sui vampiri, ma ognuna è diversa, ad attestare la longevità del mito: se Twilight si concentra sull'amore proibito, True Blood predilige la sessualità animalesca, mentre io punto sul realismo”.