Il sole del sud. No, il fuoco del sud, quello che cova sotto la terra nera che circonda Napoli.
I paesaggi lavici e le ginestre rade e solitarie di leopardiana memoria. Il dialetto franto, feroce della gente e secoli e secoli di miseria materiale, un presente che si innesta lugubre su di una partitura barocca, come la colonna sonora di Daniele Sepe, artificiosa nel suo squallore di bellezza spossata e mortificata.
Il Vesuvio di Gianfranco Pannone (Sul vulcano, fuori concorso a Locarno 67) è metafora ambigua di un tempo apparentemente astorico eppure mai come in questo caso radicato a fondo nella storia, quella di ognuno di noi. Massa incombente, scura, fumosa, Monte Fato di una terra alla perenne ricerca di redenzione, il vulcano è simbolo (e sintomo), neanche troppo astratto, di quell'attesa della catastrofe che grava sull'homo meridionalis come una tara ancestrale e forse irrimediabile.
I racconti di vite vissute, apporti polifonici a una melopea tragica che accomuna la terra nera da secoli, coi suoi inquietanti movimenti tellurici, approdano a una visione cupa del reale, laddove la minaccia ctonia, che giunge dal nucleo intimo della terra, si contrappone alla minaccia di una vita cupa, di una società priva di luce per quegli abitanti che popolano Napoli come formiche in cerca d'ossigeno. I campi lunghi, la fotografia asciutta e i riflessi marini non bastano a cancellare l'orrore: l'abusivismo edilizio a distruggere un paradiso naturale adombrato, già di per sé, da tinte infernali (la lava, i vapori vulcanici); la criminalità organizzata, mai nominata direttamente ma onnipresente come un cancro sotterraneo, a distruggere la sanità dell'individuo.
Preziose le perle letterarie sullo sfondo, dal Divino Marchese a Malaparte, da Giordano Bruno a Leopardi a Sandor Marai, testimoni inebetiti di uno splendore ormai passato e per noi moderni inconoscibile, tanto accecante quanto ostile. E poi ci sono i lettori, fascinosi e mai banali: Toni Servillo, Donatella Finocchiaro e Fabrizio Gifuni fra gli altri.
Diceva il grande poeta irlandese W. B. Yeats: “A terrible beauty is born”. Il Vesuvio, forse, ne può rappresentare il correlativo oggettivo.