A cinque anni di distanza da Train de vie, arriva nelle sale italiane il nuovo film di Radu Mihaileanu, Vai e vivrai. Coprodotto dalla Cattleya di Riccardo Tozzi e da Medusa, uscirà il 4 novembre distribuito da quest'ultima in circa 90 copie. Ancora una volta i protagonisti della vicenda narrata sono costretti alla fuga e ancora una volta per farlo devono mentire sulla propria identità. Se in Train de vie si trattava di un gruppo di ebrei che riusciva, grazie ad un ingegnoso stratagemma, a ingannare i nazisti, in Vai e vivrai si racconta dell'esodo di migliaia di ebrei etiopi (i Falasha) verso la Terra Santa. "E' un film che parla di un tema universale - spiega il regista rumeno ma francese di adozione - quello dell'immigrazione e della ricerca dell'identità". Con lui a Roma per presentare il film anche l'attore Sirak M. Sabahat, che sul grande schermo è affiancato da Yael Abecassis, già nota in Italia per i film di Gitai e per aver recitato in Ballo a tre passi di Salvatore Mereu. Era il 1984 quando spinti dalla fame e dalla carestia ad abbandonare il loro Paese, i Falasha si rifugiarono in massa in un campo profughi del Sudan dopo avere percorso a piedi centinaia di chilometri. Da lì furono poi prelevati e portati in Israele grazie a una vasta operazione denominata Mosé e messa in piedi dal governo israeliano con il sostegno del Mossad e degli Stati Uniti. Il film segue la vicenda di Schlomo (non a caso lo stesso nome del protagonista di Train de vie), che nel corso del film vediamo prima bambino, poi adolescente e infine adulto. Non è ebreo, bensì cristiano, ma per salvargli la vita la madre lo obbliga ad unirsi al gruppo in partenza per la Terra Santa. Costretto a mentire sulla propria identità, il bambino viene adottato da una famiglia ebrea e cresciuto come tale. Dovranno passare molti anni prima che riesca a sentirsi come un membro qualsiasi della società che lo ha accolto, ma non supererà mai il trauma del distacco dalla madre. "Se volessimo usare un paragone scherzoso potremmo definire Schlomo un piccolo E.T. etiope, pure lui guarda la luna dalla finestra e sogna di tornare a casa" dice Mihaileanu. E racconta: "So cosa si prova ad essere sradicati dalla propria terra e a sentirsi straniero ovunque. Il vero nome di mio padre era Buchman, ma lo ha dovuto cambiare durante la guerra per salvarsi dai nazisti, poi quando ero bambino abbiamo dovuto abbandonare la Romania per sfuggire alla persecuzione di Ceausesco. All'inizio ho sofferto molto, ma col tempo ho capito che questa mia duplice identità costituisce una ricchezza e che la mia vera casa è dove si trovano i miei figli".  L'idea di realizzare Vai e vivrai è nata dopo aver conosciuto a Los Angeles un Falasha. "Per cinque anni non ho fatto che raccogliere informazioni, ho incontrato alcuni dei protagonisti dell'operazione Mosè, dei membri del Mossad e anche etiopi non ebrei che vivono in Israele in clandestinità". Poi l'incontro con Tozzi ai David di Donatello e il via al progetto, girato quasi interamente in Israele. "Di questo paese volevo dare un'immagine diversa da quella che passa in tv e sui giornali, limitata e semplicistica anche nel descrivere il conflitto con i palestinesi. E' un paese molto piccolo per estensione (è grande quasi quanto la Puglia, n.d.r.) ma con mille anime e tante opinioni al suo interno. Quello che volevo mostrare era la faccia più umana del suo popolo". A vivere in prima persona un'esperienza simile a quella vissuta sullo schermo da Schlomo è stato proprio Sirak M. Sabahat, arrivato in Israele nel 1991 con una successiva e analoga operazione chiamata Salomone. "A dieci anni ho visto cose che nessuno a quell'età dovrebbe mai vedere: la gente morire per le strade e tanta sofferenza che ancora oggi se ci penso mi vengono gli incubi - racconta il ragazzo, che in Israele lavora in teatro e conduce un programma televisivo per bambini -. Quando siamo fuggiti dall'Etiopia non lo abbiamo fatto solo per scampare alla fame, ma anche perché per anni ci hanno insegnato che quella era le Terra Promessa. Non è stato affatto facile, anzi all'inizio è stato uno shock. Prima di allora non avevano mai visto una macchina, il gas e l'elettricità non sapevamo cosa fossero. Abbiamo dovuto imparare tutto da capo, a leggere e scrivere in un'altra lingua, adattarci a una nuova cultura e a un nuovo stile di vita. Ma sono fiducioso, credo che un film come questo possa aiutare la gente a cambiare e a lottare contro il razzismo che è il male peggiore di questo secolo".