Si può raccontare l'orrore della dittatura e il desiderio di vendetta covato da ogni rivoluzione attraverso una favola? A tentare l'esperimento è il grande Mohsen Makhmalbaf che in The President (sezione Orizzonti di Venezia 2014) racconta ciò che avviene quando un colpo di Stato destituisce un regime e il vecchio dittatore e il suo piccolo nipotino sono ricercati da un popolo inferocito che vorrebbe far loro la pelle. "E' una favola in cui sfortunatamente riecheggiano eventi che si sono verificati in passato e che sono purtroppo destinati a ripetersi - dichiara il regista iraniano al Lido -. Nel corso della primavera araba, diversi dittatori della regione sono caduti, da Ben Ali a Mubarak passando per Gheddafi, ma ce ne sono nel mondo altri 40 ancora al potere. Anche quei paesi che sembravano aver fatto un passo avanti verso la democrazia sono ricaduti nella spirale di violenza dopo il collasso dei vecchi regimi. Centinaia di migliaia di persone sono state uccise e a milioni sono state ferite o sono state costrette ad espatriare. Come possono queste nazioni diventare democratiche e lasciarsi alle spalle questi terribili conflitti?".
Autore da sempre sensibile ai conflitti politici e alle questioni socio-culturali del Medioriente, Makhmalbaf rifugge dalla facile condanna verso i tanti despoti che opprimono la regione nonostante lui stesso, esule con la moglie dall'Iran da oltre dieci anni e prima ancora in carcere per atti eversivi durante il regno dello shah Reza Pahlavi, ne sia stato vittima: "Quello che ho provato a fare - spiega - è fornire una doppia visuale che bisogna sempre tener presenti in questo tipo di situazioni. Da una parte c'è la sofferenza che questi dittatori causano al popolo. Dall'altra quella provocata dalle rivoluzioni. Al collasso di ogni dittatore segue la ferocia scatenata contro di loro dal popolo, con il risultato di alimentare violenze su violenze. La nuova classe dirigente, avendo sperimentato ciò che il popolo può fare dei suoi sovrani, sarà terrorizzata dall'idea di perdere il potere e userà ogni mezzo per impedirlo. Come i vecchi dittatori. Il film sposa la speranza che questo circolo vizioso possa essere spezzato".
Fondamentale in The President il rapporto tra il vecchio dittatore (Misha Gomiashvili) e il nipotino (Dachi Orvelashvili), "simbolo del potere che corrompe l'innocenza. Ma il bambino rappresenta anche l'innocenza del vecchio, l'innocenza che ha perduto. Le domande che fa al nonno sono le domande che fa a se stesso. Mi piacerebbe spedire questo film a tutti i dittatori del mondo e sentire che cosa hanno da rispondere".
D'altra parte, il dittatore di Makhmalbaf non è molto diverso da quelli del mondo reale, a dire dell'autore: "Penso che tutti i dittatori visti da vicino facciano un pò ridere. Da lontano fanno paura ma da vicino fanno ridere. Sembrano vivere in una dimensione tutta loro ma non dimentichiamo che sono prima di tutto uomini. Di recente si è parlato del dittatore dell'Uzbekistan e delle sue discussioni con le figlie o di quello dell'Arabia Saudita che ha fatto imprigionare la figlia in casa dopo una serie di liti. Sono tutte cose che ci riportano alla dimensione umana di queste persone."
Tuttavia si fatica a leggere queste vicende con una empatia maggiore, soprattutto a sentire quello che accade e continua ad accadere in Medioriente: "La cosa peggiore delle dittature è che divide le famiglie. In Siria 200.000 persone sono state uccise ma a milioni hanno perso la famiglia. In Iran sono morti a migliaia e altrettante sono finiti in prigione, ma sono molto di più quelli che vengono separati dai propri cari. Mia moglie ad esempio non può tornare in patria nonostante i suoi genitori stiano malissimo". E sulla situazione del cinema iraniano: "E' molto dura essere un artista e non potersi esprimere. Si perde la propria identità. Il cinema iraniano oggi si divide tra quelli che fanno film fuori dall'Iran come me, Ghobadi o Kiarostami, e quelli che sono rimasti in Iran e che finiscono o in carcere o a non poter più lavorare".
Non a caso The President è stato girato in Georgia, una terra che sta conoscendo una rinascita culturale non indifferente: "Lì abbiamo potuto fare un film che sarebbe stato vietato nella metà dei paesi del mondo. In Georgia abbiamo potuto lavorare con grandi professionisti, ma non è stata una passeggiata: abbiamo sempre avuto problemi di budget e so che molte persone che hanno lavorato con noi non sono ancora state pagate".