“Era necessario capire le condizioni che avrebbero consentito un rinvio anziché una semplice cancellazione”, sicché il 73° Festival di Cannes è ancora in piedi. La manifestazione francese ieri ha buttato lì un tot di FAQ, spiegando perché non ha accannato, come si direbbe alla Festa del Cinema di Roma, ma ha provato a immaginare uno slittamento a fine giugno, inizio luglio.

L’annuncio originario lo trovate qui, oppure dispiegato e spiegato qui, di certo non è sportivo: letteralmente, perché non si può sostenere che “i campionati europei di calcio sono stati annullati mentre erano già in corso” né ancorare la procrastinazione del festival al fatto che “il Tour de France inizia il 27 giugno”.

Molto altro è discutibile, se non sanzionabile, nell’excusatio di Cannes, sopra tutto fa rumore la prelazione accordata agli stakeholders del cinema, nonché all’hôtellerie della Croisette, nel concertare la decisione, alla faccia del primum vivere deinde philosophari ovvero cinematographari.

Sia chiaro, quando il sottosegretario del MIbact Anna Laura Orrico dice a Repubblica che “sarebbe bello che la Biennale Cinema potesse diventare il simbolo della rinascita” non sta facendo nulla, o quasi, di diverso, e di certo lo spauracchio della Mostra spiega molto della decisione, probabilmente più tattico/editoriale che strategico/festivaliera, del presidente Pierre Lescure e, forse prima, del direttore Thierry Fremaux di Cannes.

Francesi, italiani, tutti, sembrano anteporre il domani all’oggi, ovvero un roseo che sarà rispetto al luttuoso che è. L’ottimismo è il profumo della vita, ci mancherebbe, ma un cinephile come Fremaux e i nostrani cinefili, ministeriali e non, non ignoreranno la genesi del titolo affibbiato al diciottesimo film di 007, Tomorrow Never Dies (Il domani non muore mai, 1997).

Ispirato alla canzone dei Beatles Tomorrow Never Knows, si diede grazie a un errore: un fax sbagliato alla MGM. Originariamente era un altro: Tomorrow Never Lies, ossia “Il domani non mente mai”. Demain ne ment jamais: capito, Fremaux?