Certe volte vien voglia di capire quali siano i criteri con cui vengono appiccicate le etichette, nel mondo del cinema. I festival più importanti, per esempio. Perché San Sebastian e Locarno occupano le retrovie della pole position? Solo perché non hanno budget e tradizione come i fratelli maggiori? Eppure la rassegna basca è ben frequentata anche dagli americani - anche se il solo Get low viene da quelle latitudini - ha una forte alleanza con Toronto e come il festival canadese rappresenta un ponte produttivo e creativo internazionale che lo rende, contemporaneamente, vetrina e laboratorio. E questo gli consente di far vedere film di alta qualità (in Zabaltegi Perlas ci godiamo le greatest hits dell'anno, in particolare riprese da Berlino, Cannes e Venezia) e di offrire tematiche anche durissime. Come il terrorismo. Sarà per l'Eta, sarà per gli attentati dell'11 marzo, qui si riflette profondamente sul tema, senza falsi ottimismi ed edulcorazioni ipocrite. Uno Zapatero pur in forte difficoltà, proprio in questi giorni alla Cnn spagnola ha pronunciato la frase angosciante “nessuno può sentirsi al riparo del terrorismo”. Neanche chi non ha vittime in Aghanistan, neanche chi si è ritirato dall'Iraq, neanche chi, unico insieme ad Obama, vuole fortissimamente un dialogo con l'Islam moderato.
E allora al 57° Festival di San Sebastian troviamo ben quattro film a raccontarci il cancro del nuovo secolo, quel terrorismo che tutti vedono come causa dei nostri mali moderni, ma che ne è solo l'effetto. E tralasciando London River, già applaudito alla Berlinale e presto nelle sale italiane, ci soffermiamo su altre tre pellicole. La prima è la più intensa, vibrante, spirituale. Hadewijch di Bruno Dumont ha riscosso un premio e applausi a Toronto, e si ripete qui in riva all'Atlantico. La storia è semplice, una novizia fanatica viene rimandata al mondo secolare dalla madre superiora che ne intuisce la vocazione. Non a servire Dio, a seguirne gli insegnamenti, ma ad amarlo in maniera insana. Lei, un'ottima Julie Solokowski, è ricca sfondata, figlia di un ministro, di un'innocenza che rasenta la colpa. In Cristo vede una ragione di vita, e, giovane donna piena di passioni, un amante. Non si accontenta, come cerca di dirle l'amico Nassir “dell'assenza che è presenza, più Dio è invisibile più è tra noi”, ne vuole l'anima e il corpo, sentirlo oltre che pregarlo. La sua purezza cieca la porta nelle banlieues, un amore mai nato si sposa invece al fanatismo di Nassir (Karl Sarafidis), più razionale del suo. E si cementa in un palazzo che brucia, nel funerale di un bambino morto per il razzismo classista che infiamma Parigi. Solo il martirio può soddisfare i loro opposti fondamentalismi, fratelli nel combattere anche il privilegio, il potere: quello di cui lei sente la colpa, quello di cui lui è vittima da prima di nascere. Bello, potente, disturbante, ci ricorda che le strumentalizzazioni e le guerre sante, i fanatismi e le idolatrie, non sono mai religione e spiritualità. Vale anche per 5 Minutes of Heaven, opera un po' didascalica ma potente di Oliver Hirschbiegel. James Nesbitt e Liam Neeson, un cattolico e un protestante, un irredentista e un unionista. La loro vita è segnata da un giorno: il primo è testimone oculare dell'omicidio del fratello, il secondo è l'assassino, allora 17enne. Dopo 33 anni, nel 2008, e dopo 12 di galera per il colpevole, si devono rincontrare in una trasmissione tv sulla riconciliazione. Ma la ferita sanguina ancora. Duetti a distanza di due grandi attori, una riflessione ulteriore sulla follia identitaria di un mondo allo sbando, sull'imperialismo che ha diviso popoli e ne ha uniti forzatamente altri. E così è difficile non amare anche Los Condenados del basco Isaki Lacuesta, un viaggio in una sorte di comune del Tucuman di ribelli argentini, resistenti (ma c'è chi li chiama terroristi) alla dittatura del passato. Uno di loro si è “esiliato” in Spagna (combattendo, scopriamo, anche con l'Eta) e ritorna. Qui il dramma è tutto interno: tradimenti, incoerenze, frustrazioni. Perché combattere dalla parte giusta può essere doloroso e ingiusto, comunque. Sarebbe bello saper raccontare certi drammi così attuali, tanto intimi e individuali quanto pubblici e collettivi, anche qui. E invece bei film come quello di Pannone e Fasanella, Il sol dell'avvenire, vengono messi all'indice. Eppure con Los Condenados divide la frase cruciale. Quella di Martìn, quella di Franceschini (Alberto): “Sono terrorizzato solo al pensare cosa sarebbe successo se avessimo vinto noi”. Donostìa San Sebastian applaude. E riflette.