Alaindelon, senza pause, senza esitazioni, una sola parola, come compete alle star entrate nel cuore della gente. Nome e cognome intrinsecamente legati, pronunciati senza prendere fiato e sospesi da sempre nella nostra memoria. Ci hanno accompagnato per più di quarant'anni al pari di altri nomi non meno leggendari, come brigittebardot, tanto per rimanere in Francia, evocando una grandezza mai scalfita da nessuna pellicola, anche se modesta, da nessun scandalo, da nessuna provocazione, da nessun silenzio. Alaindelon è sempre lì, solo con altre star, in un luogo scavato nella gloria, dove l'unica porta conduce all'immortalità. Un'aura di leggenda ne ha sempre accompagnato, e in qualche modo, mistificato, le gesta, staccandolo progressivamente dalla sua professione di attore per trasformarlo in un personaggio buono per ogni stagione, in grado, con la stessa leggerezza, di passare dalle pagine della cultura a quelle della cronaca nera, dalle pagine di costume a quelle della cronaca rosa. Alaindelon nasce star nel paese dove è nato il cinema, negli anni in cui la Nouvelle Vague lo ha rinnovato completamente. Jean-Pierre Melville, che lo conosceva bene per averlo diretto in tre film, Frank Costello faccia d'angelo, I senza nome e Notte sulla città, diceva di lui: "È l'ultima star che io conosca; per la Francia, è ovvio, ma parlo di tutto il mondo". Una rapida ascesa, come si compete ai giovani leoni, Delitto in pieno sole di René Clément, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e infine Il Gattopardo, il film che lo incorona, dove è Tancredi, bello, simpatico, brillante, spavaldo, coraggioso, persino fortunato. Nell'ascesa alaindelon si può permettere il lusso della comicità in Che gioia vivere! di Clément e L'eclisse dei sentimenti nell'omonimo film di Antonioni. Sono gli anni del fidanzamento con Romy Schneider, di amori e tradimenti, di passione e di rabbia, per la gioia dei paparazzi appena promossi da Fellini al rango di primattori della scena mondana. Hollywood si è trasferita sul Tevere, la dolce vita impazza e alaindelon in Italia è di casa, a contendersi la scena con i divi americani, più costruiti (a tavolino) di lui, meno autentici nei comportamenti e, soprattutto, nelle reazioni. È il periodo d'oro, al quale segue, nel volgere degli anni sessanta, in un'atmosfera socialmente tesa, la collaborazione con registi come Melville, come Jacques Deray. Commissari e malviventi fanno lo stesso mestiere, da prospettive diverse, e alaindelon, smarrito il sorriso da ragazzo e calato in un ambiente dominato dal senso dell'onore, spesso più decantato che autentico, veste i panni degli uni e degli altri. La carriera di alaindelon negli anni settanta, aperta con lo straordinario I senza nome di Melville, è un susseguirsi di film diretti da solidi registi e di occasioni mancate e dagli anni ottanta in poi alaindelon si consegna completamente al personaggio, ormai entrato a pieno diritto nel mito: il silenzio come complice, per creare ancor di più un alone di mistero e magia, qualche impetuosa presa di posizione, in nome del vecchio orgoglio. Divo ad uso e costume della televisione più che del cinema, che ne condivide il medesimo declino, sempre più lontano dalle immagini, care ai cinefili, degli esordi. In fuga dal suo passato, dal quale inevitabilmente, come ogni star che si rispetti, ha sempre corso il rischio di essere risucchiato. E più che mai in fuga da se stesso.

* Estratto dell'articolo Il ruggito del leone stanco pubblicato sul numero di novembre della Rivista del Cinematografo