Il vero Survival of the Dead è il regista, George Romero. Il padre degli zombie è sopravvissuto a quarant'anni di tristi imitatori, aggiustamenti mainstream, crisi dell'horror. Oggi si ritrova a Venezia (in concorso!) per presentare - quarant'anni dopo la creazione del capotistipe, La notte dei morti viventi - il suo sesto film sull'argomento, stavolta dalle atmosfere western e ispirato a The Big Country di Wyler: "Finché mi divertirò, continuerò a farli - dice il regista americano -. Dopo Il giorno degli zombi, che chiudeva una trilogia, pensavo avessi finito con loro. E invece ho ritrovato negli ultimi anni l'urgenza di mettere nuovo ordine al loro mondo". Ordine per modo di dire. Come nei film precedenti, anche in questo Survival of the Dead il caos la fa da padrona. D'altra parte che mondo potrebbe mai essere quello in cui i morti si risvegliano e vagano alla ricerca di carne umana? "Ma stavolta ho provato a integrarli nel regno dei vivi, cercando ricette alternative per sfamarli". Nobile missione che fa il paio con l'altra, più improba, mettere d'accordo gli esseri umani tra loro: "Il punto sul quale ho voluto focallizzarmi è l'incapacità dell'uomo di ricordare perchè qualcun altro è diventato suo nemico: le ragioni dell'odio". Come accade oggi tra integralisti e occidentali? "Non mi sono interrogato su un conflitto specifico - risponde Romero - ma ho voluto riferirmi a ogni forma di tribalismo". E su quali siano i veri zombie nel mondo di oggi, il regista è anche più generico: "Difficile distinguere oggi tra i vivi e i morti". Causticità e coscienza politica, il marchio del maestro che non perde la fiducia "nell'horror come genere prediletto per esprimere considerazioni personali sul mondo in cui viviamo". E sull'anacronismo dei suoi zombie, lenti e prevedibili, quasi inoffensivi "perché a differenza di Snyder che li immagina veloci e aggressivi, i miei sono di più. E' la massa il problema".