La nave dolce è nato su sollecitazione di Silvio Maselli e Ilir Butka nel 2010. Ero al Festival di Otranto e mi ritrovai inaspettatamente a una riunione di pre-produzione”. Ricordando la genesi del proprio film, presentato Fuori Concorso a Venezia, Daniele Vicari chiarisce da subito cosa non è: un'analisi dei problemi dell'immigrazione (“sono un regista, non un sociologo”) o una pellicola dalle ambizioni storiografiche.

“La pellicola è piuttosto una metafora dei nostri tempi strutturata per immagini. Durante le ricerche che hanno preceduto la realizzazione de La nave dolce, ho scoperto l'esistenza di decine e decine di filmati, realizzati da giornalisti che hanno saputo narrare i fatti con soluzioni estetiche degne di cineasti”. Come scegliere fra tanto materiale a disposizione? “Quando Cesare Zavattini creò l'Archivio audiovisivo del movimento operaio disse: 'Abbiamo prodotto un'enorme quantità di immagini, che sono lì, ferme sugli scaffali, impazienti di esistere'. Il regista che decide di riutilizzarle deve far sì che esistano in maniera congrua. Per questo il montatore Benni Atria firma anche la sceneggiatura, insieme a me e ad Antonella Gaeta”.

Successivamente, Vicari ha dovuto selezionare i testimoni adatti da intervistare: “Considerando l'impatto delle immagini, io e Antonella abbiamo privilegiato persone capaci di narrare e narrarsi senza reticenza. Volevamo che si donassero completamente alla macchina da presa e abbiamo costruito un set bianco proprio perché parlassero senza distrazioni. Alla fine loro stessi si stupivano di quello che erano riusciti a esprimere, quasi si fosse trattato di una seduta psicanalitica”.

Sulla differenza tra il dirigere attori e intervistare persone “reali”, Vicari scinde la questione tra lato artistico e lato umano: “Nel primo caso non c'è alcuna differenza, entrambi ritrovano dentro se stessi un'emozione, con la variante che il testimone l'ha vissuta, l'interprete no. Nel secondo, la questione è più complessa. A un attore posso chiedere tutto, anche di ricreare un trauma profondo davanti a me. Non sarebbe morale se facessi altrettanto con qualcuno che un'esperienza simile l'ha provata. Posso solo aspettare si sveli, quindi intesa e rispetto reciproco sono importantissimi. Se lo forzassi, sarebbe tutto inutile e lo spettatore sarebbe il primo ad accorgersene. Personalmente non amo la tv del dolore, eppure, a volte, il cinema trova un suo senso proprio nei territori dell'irraccontabile: altrimenti a cosa servirebbe la narrazione?”.