“Non giudico. Ritraggo”. Così, poco dopo la vittoria del secondo Grand Prix a Cannes, lo scorso maggio, Matteo Garrone spiegava il modus operandi per l'approccio ad affreschi glaciali e drammaticamente grotteschi come quelli di Gomorra e Reality. È sempre stato così, il regista romano: mai troppo attirato dalla luce dei riflettori, capace sin dagli esordi di “assorbire” da qualunque situazione, realtà, tessuto sociale, una storia, più storie, da poter poi riprodurre apparentemente senza alcun “filtro”, lasciando parlare - appunto - la storia. Lasciando carta bianca al “punto di vista”, che in Gomorra si annullava miracolosamente e che in Reality, invece, riacquista una valenza, anche metaforica, spaventosa.
Il punto di vista, al quale stavolta Matteo Garrone si è affidato per “giudicare”. Fiore all'occhiello di una giuria presieduta da un altro grande, grandissimo cineasta (Michael Mann), il regista de L'imbalsamatore e Primo amore ha contribuito alla decisione più sofferta della recente 69° Mostra di Venezia: l'assegnazione del Leone d'Oro e degli altri premi ai film in concorso.
Il giochino a cui sarebbe andato incontro, lo sapevamo noi, figuriamoci lui, è stato lo stesso che ha visto Nanni Moretti dover “spiegare” se e quanto abbia dovuto lottare per assegnare il riconoscimento a Reality: sia che l'Italia in gara a Venezia avesse vinto qualcosa (il premio all'attore emergente Fabrizio Falco è comunque un premio), sia che fosse rimasta a bocca asciutta (Bella addormentata di Bellocchio), Garrone si è “consapevolmente” esposto al solito, immarcescibile teatrino. Onore e oneri per un giurato certamente sui generis, abituato a ricevere premi, un po' meno ad assegnarli.
Ma c'è una prima volta per ogni cosa, e proprio Reality - che arriverà sugli schermi il 28 settembre in 350 copie distribuito da 01 - in qualche modo lo dimostra: “Nelle premesse voleva essere un piccolo film, che mi aiutasse a superare l'ansia da prestazione dopo il successo ottenuto con Gomorra”. Nelle premesse, appunto, perché poi si è trasformato in qualcosa d'altro: “Ma non è né un film di denuncia, né volevamo scagliarci contro un certo tipo di televisione, siamo semplicemente partiti da un fatto realmente accaduto”, spiega Garrone. Ancora Napoli, non più la camorra però: il pescivendolo Luciano (l'ergastolano Aniello Arena), quasi per gioco, partecipa ad un provino per il Grande Fratello. Da quel momento, la sua vita cambia ed è spesa solamente in funzione di un'attesa: quella della telefonata definitiva, la convocazione al programma tv che può trasformare i tuoi sogni in realtà. L'attesa si trasforma però in ossessione, ogni persona, ogni gesto, viene misurato in funzione di un ipotetico controllo che la produzione sta effettuando su di lui. Luciano è diventato protagonista di un Reality che invece non è mai iniziato, ma che la sua testa non vuole più abbandonare.
“Quando racconto qualcosa non sempre riesco a capire la drammaticità della storia. Nelle premesse doveva essere una commedia, in qualche modo mi rendevo conto dei risvolti amari ma non ho più quella distanza necessaria per poterlo giudicare: qualsiasi spiegazione andrebbe in una direzione che toglierebbe poi la libertà ad altri di vederci quello che vogliono: per me nasce come una favola moderna, che si trasforma in un viaggio verso gli inferi di un personaggio che si spersonalizza”. Personaggio interpretato da un attore detenuto - ed ecco l'altra “prima volta”, considerando che alcuni di Gomorra, dietro le sbarre, ci sono finiti dopo - che Garrone ha scovato grazie agli spettacoli diretti da Armando Punzo a "Volterra teatro d'estate", dentro il carcere: “La vera valorizzazione del personaggio l'ha data lui - dice il regista - straordinario interprete per un ruolo complicatissimo, impreziosito dal candore di un uomo che, in prigione da quasi 20 anni, ha scoperto un mondo che ignorava del tutto”.
Parola di un regista/giurato che non “giudica”, ma che sa prendere il meglio da ciò che vede.