(Cinematografo.it/Adnkronos) – "Questo film inizia senza immagini, perché non ci sono immagini per quello che ho visto". È la premessa che scorre sullo schermo nero all'inizio di 'Republic of Silence' della regista siriana Diana El Jeiroudi, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia. Il film inquadra le storie di chi vive intorno alla regista: un intreccio di culture e lingue di un gruppo di esuli a Berlino, colti nella loro quotidianità, tra attivismo e il cinema come strumento per sopravvivere. Una storia drammaticamente intrecciata con la biografia della regista, nata a Damasco, che ricevette in dono dal padre a 7 anni una telecamera, quando la sua famiglia viveva a Baghdad. "Io sono la storia e allo stesso tempo la voce narrante. Questo è ciò che resta di me e della storia, del mio essere stata testimone e del mio coinvolgimento, di come il cinema ha salvato la nostra integrità mentale e probabilmente le nostre vite", spiega la regista che dedica il suo film a "tutti i prigionieri del silenzio".

Nel film, che dura più di tre ore ed è frutto di una coproduzione tra Germania, Francia, Siria, Qatar alla quale ha partecipato anche Rai Cinema, si parla arabo, inglese, tedesco e curdo. "Cosa fanno i sopravvissuti? Rimangono zitti oppure raccontano tutta la storia. Ma come è possibile raccontare una storia per intero se la propria memoria è intessuta solo di frammenti e talvolta non è nemmeno documentata", dice Diana El Jeiroudi, che è anche cofondatrice del festival siriano di documentari ed è stata la prima cineasta siriana ad essere in giuria a Cannes nel 2014.