Giovani persi e adulti allo sbando. Questo il desolante quadro che emerge da Nemmeno il destino, presentato oggi nelle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia. Liberamente ispirato dal regista Daniele Gaglianone all'omonimo romanzo di Gianfranco Bettin, il film racconta "gli anni difficili dell'adolescenza fra ribellione, famiglia, amore e perdita". "Una fase cruciale della vita - spiega Gaglianone -, in cui ci si confronta per la prima volta con la realtà. Il problema è che il mondo di oggi non sembra più offrire risposte ai giovani. Vivono abbandonati a se stessi, privi di certezze e di valori in cui credere. Ancora più grave è la deriva degli adulti: sono loro il vero elemento debole della catena". Obiettivo del film è quindi "fare luce tra le pieghe di questa realta"', ma soprattutto lanciare un messaggio: "I giovani non si arrendono. La loro ribellione e la loro rabbia non sono altro che appello disperato. L'importante è saperli ascoltare". 
Protagonisti della storia sono Alessandro e Ferdi, amici e compagni di scuola in una città decadente e post-industriale. Intorno a sé hanno soltanto macerie urbane e affettive: le loro famiglie sono sfasciate da alcoolismo e precarietà, il quartiere in cui vivono non offre di più: "La periferia è anche un luogo metaforico - spiega Gaglianone -, l'incarnazione del limbo che separa adolescenti e adulti, genitori e figli, campagna e città". E' in questo contesto che prendono corpo le vicende dei protagonisti: "La loro è una battaglia - dice Gaglianone -, un tentativo di affermazione e di sopravvivenza. Ho adottato la loro prospettiva privata, per affrontare temi socio-politici di più ampio respiro: c'è l'incertezza nel futuro, la difficoltà d'inserimento nella società, il problema del lavoro".
Ad avvicinare Gaglianone al romanzo di Bettin, spiega il regista, è stata la sintonia con atmosfere e suggestioni del suo stesso passato: "Quando sono arrivato a Torino nel 1972, ho trovato una città ingrata e incapace di accettare le diversità. Il quartiere periferico dove vivevo con la mia famiglia era un angolo di meridione: nè città, nè campagna, ma un 'limbo' che sembrava non comprendere la nostra cultura". Con Bettin e il suo romanzo, dice, "c' è stato un rapporto dialettico molto vivo". "Abbiamo scritto la sceneggiatura cercando di non tradirlo - è il paradosso a cui si affida per descriverlo -, senza pero' preoccuparci di restargli fedeli. In molti punti il film si allontana dall'originale, ma il senso del libro sopravvive forte in tutta la storia".