Avrei voluto fare questo film 20 anni fa, quando il lottatore che non voleva abbandonare il ring era un attore che non voleva lasciare Hollywood". Mickey Rourke dunque l'ha ammesso. C'è molto di sé stesso, e della sua vita, nella (grande) prova d'attore (aspettando la Coppa Volpi) che l'ex "ragazzo selvaggio" ha regalato a The Wrestler di Darren Aronofsky, di passaggio oggi in Concorso per chiuderlo. Una discesa nella decadenza fisica e nell'isolamento affettivo di un lottatore professionista, Randy "The Ram" Robinson, all'apice della carriera e della popolarità negli anni '80, "vecchia" leggenda costretta a palcoscenici più piccoli e tristi revival oggi. Ma anche questa carriera di seconda mano è destinata a finire, bloccata sulle aritmie e le fatiche di un cuore che inizia a zoppicare. Resta la possibilità di un dignitoso ritiro, nella richiesta d'affetto a una figlia (Evan Rachel Wood) che troppe cose ha da perdonargli, e nella mano tesa a una stripper (la proprompente Marisa Tomei) che molte ne ha da risolvere. Un ritratto, non un biopic, che s'ispira alla figura di "Bruno Sammartino, un wrestler italo-americano" dice Darren Aronofsky, tornato al Lido due anni dopo The Fountain, e accolto con Rourke e la Wood in conferenza stampa da una vera e propria ovazione. Il regista americano ha cambiato registro rispetto alle sue ultime prove: "Il teorema del delirio, Requiem For A Dream e The Fountain, facevano parte di un unico corpo filmico. Qui sono tornato all'esperienza documentaria degli inizi, l'uso della camera a mano, un maggiore controllo. Il mio lavoro consisteva nel costruire uno spazio aperto dove Mickey potesse muoversi liberamente. Così è stato, e se oggi il film è piaciuto il merito è tutto suo e della sua strordinaria performance". Rourke, che ha passato due mesi della sua vita in una palestra ad allenarsi con veri wrestler ("l'allenatore mi ha detto che Mickey era migliore dell'80 per cento dei lottatori che si allenavano con lui" ha raccontato Aronofsky), non amava particolarmente questo sport prima del film: "Lo detestavo - dice a voce bassa - pensavo fosse roba da trogloditi. Invece ho incontrato tante persone speciali nell'ambiente e ho scoperto che era solo sport, come tanti altri". E se qualcuno pensava che questo loser solitario gli avesse lasciato qualcosa, Rourke gli da il benservito: "Insegnato cosa?! Adoro la mia solitudine, son vent'anni che ci convivo bene". Nessuno s'azzardi poi a chiamarlo ritorno: "E' una parola troppo sfaccettata perchè io la usi adesso", taglia corto l'attore. Risponde per lui il regista: "Mickey ha fatto un lungo viaggio, è stato via 15 anni, ma ora è tornato il grande attore che non ha mai smesso di essere". alla fine Rourke smette di fare il personaggio e confessa che un pò della sua vita "c'è in questo film" e che ad emozionaro di più è stato "poter dire di avere una figlia. Disadattata, lesbica, tossica. E' proprio figlia mia". "Ho preso molto da mio padre", conferma Evan Rachel Wood, la quale confessa di non aver saputo di dover lavorare con Rourke fino alla fine: "Darren non mi aveva detto nulla, e quando me lo sono ritrovato davanti al provino gli ho detto: e tu che ci fai qui cogl...?". La Wood al cinema non è stata mai fortunata con i padri. Dopo il genitore borderline (Michael Douglas) di Alla scoperta di Charlie, questo distratto e pestato di Rourke: "In compenso il film mi ha aiutata molto con il mio (l'attore Ira David Wood III, ndr). A fine riprese ho fatto pace con lui. Non ci parlavamo da tanto tempo". Più netto Rourke sul suo ruolo: "E' un sognatore che vive come una m....Più o meno come me 15 anni fa". (Foto Giuseppe Leonardo, ISFCI)