Rotterdam, città in cui la terra piatta fa i conti con le spinte verticali della nuova architettura, ospita un festival poco rumoroso e molto propulsivo. Sferzati dal vento del nord, sotto il solito cielo plumbeo, gli oltre 3000 accreditati (giornalisti, registi e professionisti del settore) troveranno riparo nelle 24 sale cinematografiche predisposte da questo festival che, giunto alla sua trentanovesima edizione, si conferma come un luogo di ricerca con un'attenzione pronunciata verso l'est del mondo.
Qui, qualche anno fa', è stata lanciata l'onda filippina che oggi miete premi a Venezia e Cannes; sempre qui ha sede uno dei più importanti fondi di sostegno al cinema (Hubert Bals) che ha permesso a tanti registi di uscire dai confini nazionali (tra gli altri: l'argentino Pablo Trapero, il turco Nuri Bilge Ceylan e il palestinese Elia Suleiman).
Il festival – diretto in passato anche da Marco Muller – è oggi una rassegna che viaggia a due direzioni: da una parte solletica il folto pubblico olandese con il recupero dei film d'autore (Lourdes di Jessica Hausner e Visages di Tsai Ming-liang, Hadewijch di Bruno Dumont e Lebanon di Samuel Maoz); dall'altra scandaglia i cinque continenti alla ricerca dei registi di domani (spesso - va detto - senza troppo successo).
Forte, da qualche anno, di un rapporto privilegiato con il Sundance e il festival coreano di Pusan (da lì viene il film di apertura, Paju, complesso intreccio di passioni sentimentali e politica), il programma di Rotterdam ha di che stuzzicare tutti i palati. Molte le anteprime mondiali o europee in cui opere contemplative si affiancano film di genere, saggi sperimentali fanno il paio con una fitta rappresentanza di documentari.
Pochi purtroppo i film italiani; e nessuno a far parte dei quindici prescelti a contendersi la tigre d'oro 2010, che sarà decretata da una giuria in cui figura la fascinosa attrice e cantante francese Jeanne Balibar. Peccato!